giovedì 26 aprile 2012

IL GOLPE COSTITUZIONALE. DIECI TESI SULL'ATTUALE SITUAZIONE DEMOCRATICA (parte II)


Il bene del paese

"Riusciremo a superare le difficoltà economiche e sociali se tutti, forze politiche, economiche, sociali e produttive, lavoreremo nell'interesse del paese e del bene comune". Mario Monti, ieri 25 Aprile 2012.

Il “bene del paese”, come abbiamo detto, è uno slogan buono per tutti i regimi politico e per tutte le stagioni. Sarò un po’ banale, ora. Ma è meglio fare le cose con calma e capirle per bene. Il “bene del paese” invoca i concetti di “bene” e di “paese”. Oggi il bene viene identificato con il concetto di “sviluppo”, e questo con quella di sviluppo “economico”: e su questo non ci possono essere dubbi (il mantra della crescita non si riferisce certo ad una crescita morale, estetica, in altezza… in barba a Dostoevskij, quel grande e implacabile sognatore, il cui ultimo messaggio fu “la bellezza salverà il mondo”). Il bene è dunque qualcosa di economico (ma non nel senso che “costa poco”….). Il “paese”, da parte sua, è un astrazione cui si fa ricorso quando si devono introdurre delle norme che a loro volta introducono “sacrifici”: una palingenesi, fin dall’antichità, passa sempre attraverso un momento sacrificale (lo sparagmos di Dioniso, il sacrificio di Isacco, la crocifissione di Gesù, etc.). Allora il paese funziona come concetto di coesione e di unità, una unità che viene richiesta per perseguire l’obiettivo del bene del paese, e cioè: dello sviluppo economico. Ci sono motivi di pensare che questa unità e coesione siano molto rischiosi in fatto di politica. Il paese, come referente sociale di questo concetto, si frantuma in una serie di gruppi e di classi sociali. Una certa tradizione ha mostrato che i loro interessi sono più contrastanti che solidali. Una certa esperienza storica ha mostrato che quando le cose vanno bene, cioè quando l’economia capitalista va a gonfie vele, i loro interessi possono convergere fino ad un certo punto, perché i flussi di denaro in eccesso coprono e sovrastano le loro differenze di base. Un matrimonio di interesse li tiene uniti. Un matrimonio di interesse, però, entra in crisi quando in crisi entra l’interesse. E i gruppi contrapposti riappaiono (non erano mai spariti). Ma essi vengono ri-amalgamati dal lessico politico, che li raggruppa sotto il concetto di “paese”, che viene a sua volta congiunto con il concetto di “bene”. I due maggiori partiti italiani condividono questo lessico universalistico. Essi parlano di paese e di bene. Così facendo, tacciono le differenze reali esistenti all’interno del “paese”. E così facendo, si rendono colpevoli di mistificazione. Traiamo una conseguenza, in forma di tesi.
un esempio della retorica del "sacrificio" e del "bene del paese" nei sondaggi.
 il  57% degli italiani sembra però più intelligente dei politici e dei sondaggisti.

Tesi 3: il “paese”, così come è usato correntemente dai partiti politici, non esiste. Da cui deriva un’altra tesi. (questa tesi ha un’importanza politica enorme: ecco perché non viene mai riconosciuta)

Tesi 4: “il bene del paese”, poiché il “paese” non esiste, è un concetto non falso ma fittizio. Ma se è fittizio, perché viene utilizzato?

Potremmo chiederci che cosa si consegue con l’impiego di questo concetto, e domandarci anche che cosa non si conseguirebbe senza il suo utilizzo. Emergerà una stretta connessione con il concetto appannato di democrazia come oggi è stata imposta (da un certo ceto politico) in Italia (“crocette” + “illusione”) e con il concetto di golpe che proponiamo. Innanzitutto, il suo accostamento con il “bene”, di cui “il paese ha bisogno”. Si dice infatti, e tutti i partiti politici lo dicono, che “il paese ha bisogno di….”. Il paese ha bisogno del “bene”, ma questo suo bene è sempre, e davvero sempre, identificato con lo “sviluppo economico”. Il paese ha bisogno di crescita, etc. Nell’attuale congiuntura politico-economica, per tornare a crescere il “paese” ha bisogno di risanare i conti, di fare tagli, di ridurre gli sprechi, di modificare gli investimenti, di diminuire lo spread, di riguadagnare la fiducia dei mercati. In ultima istanza, sembra che per tornare a crescere (cioè: per tornare in vista del proprio bene) il paese abbia bisogno di risanare i conti e diminuire la spesa. Ecco perché si invoca l’unità del paese. La si invoca perché la compressione della spesa non può che ricadere sul “paese”. I “sacrifici” cui il “paese” si deve sottoporre vengono detti necessari per il conseguimento del “bene”. Si crea, grazie a questo lessico sapientemente adottato, la percezione di uno sforzo comune per un bene comune. Tutti devono soffrire, perché tutti un giorno godranno del bene finalmente raggiunto. Ciò che non si dice è però che i sacrifici, che tutti fanno e che tutti devono stoicamente accettare, hanno una caratura diversa a seconda di ciò che il “paese” realmente è, e cioè composizione eterogenea di gruppi e classi sociali, che non stanno in condizione di parità quanto alle condizioni di partenza e nemmeno di arrivo. Un aumento della tassazione ha effetti diversi nei vari gruppi e classi sociali: effetti psicologici, effetti sociologici, effetti culturali, oltreché naturalmente effetti economici. Una contrazione del welfare, anche (alcuni potranno permettersi un otorino privato, altri no). Inoltre, il “bene”, identificato con lo sviluppo economico per il quale sarebbe ora necessario “tagliare” e “fare sacrifici”, è assunto anch’esso come qualcosa che avrà una ricaduta coerente su tutto il “paese”, mentre si sa che non sarà affatto così. Anche ammettendo che tra qualche anno l’economia ricomincerà a crescere, non è affatto detto che tutte le misure ora tagliate verranno automaticamente reintrodotte, che verranno dati più soldi per i servizi pubblici territoriali, che verranno tagliati gli umilianti contratti a progetto, che si reintrodurrà il lavoro a tempo indeterminato, eccetera. Non sarà così. Il mito del sacrificio proietta un’idea di futuro indeterminato dominato dal bene. questa connessione della “politica” così come viene intesa e la dimensione del futuro andrebbe analizzata più a fondo, ma per ora propongo la seguente domanda, che cerca di legare assieme il fatto che il “paese” non esiste (Tesi 4) con il problema del “tempo della politica”, immancabilmente volto verso il futuro. Così facendo, non si trascura anche quello che è il “bene” di alcuni gruppi sociali… ora? Il “bene” per un operaio disoccupato con due figli è davvero che si tornerà a crescere? Non è anche poter portare il proprio figlio ad una scuola pubblica decente ora? Non è garantirgli la possibilità tra uno o due anni, magari, di poter accedere all’università? Tutte queste cose, tra molte altre, non potranno essere fatte dopo. Nel frattempo, una parte del paese (altri gruppi e classi sociali) non subiscono veri tagli, e continuano la propria vita precedente, con uno standard magari diminuito, sì, ma tagliato soltanto di una vacanza alle Barbados verso Febbraio. I loro sacrifici sono comparabili con quelli di altri gruppi sociali? Il modello quantitativo dei tagli “equamente” distribuiti non ha, purtroppo, un funzionamento solo quantitativo. Certo, il problema non è risolto per il fatto di essere posto. Ma lo è meno se non è nemmeno posto. Ecco dunque una nuova tesi.

Tesi 5: il “bene del paese” non esiste sia per la tesi 4 sia perché il “bene” è un concetto vuoto e indeterminato. Il “bene”, nella locuzione “il bene del paese”, non esiste più di quanto esista il paese a meno di assumere dei concetti ideologici sia di “bene” che di “paese”.
                                                                                                                                    
Arriviamo ora al problema della connessione del concetto “bene del paese” con il concetto di democrazia come viene oggi vissuto e attuato (rimane ovvia una cosa: ci sono gruppi di persone che praticano e lottano per una democrazia diversa, oggi di solito chiamata diretta. Ma, purtroppo, rimane il fatto che essi non sono la maggioranza). È possibile, infatti, che una certa percezione di ingiustizia, o di inganno, o addirittura di presa in giro, venga sentita da quella parte di “paese” che non si riconosce nella definizione di “paese” quale è usata oggigiorno. È possibile ad esempio che essa vogliano protestare (mostrando che il “paese” non esiste… quale scandalo!). Come sappiamo, la percezione dell’ingiustizia va di pari passo con l’accesso all’informazione, e l’accesso all’informazione può regolare la formazione dell’opinione e del consenso. Abbiamo dunque tre elementi: 1) la costante e reale possibilità di protesta e 2) la costante e reale possibilità della possibilità di protesta e 3) la costante e reale possibilità che la possibilità di protesta entri nel circolo dell’istituzione democratica, e che quindi possa incidere sul corso della deliberazione politica.  Il secondo elemento regola il primo. Questo secondo elemento è l’informazione. Il terzo è invece la possibilità di concretizzazione istituzionale del primo. Come definizione di “democrazia” propongo la costante e reale coesistenza di questi tre elementi all’interno dello spazio pubblico. Non è una definizione esaustiva, evidentemente; è piuttosto una metadefinizione, al cui interno devono restare specificati i meccanismi pratici di strutturazione di una democrazia realmente esistente. Ma una democrazia funzionante non può rinunciare alla contemporaneità di questi tre parametri.
Vorrei ora sostenere che il modo in cui la costituzione è stata recentemente cambiata a proposito del cosiddetto “pareggio di bilancio” non risponde a questi tre criteri; che essa non è quindi democratica; che essa può essere dunque definita un golpe nel senso della tesi 1. Ma prima enuncio la tesi 6:

Tesi 6: la democrazia può essere meta-definita come la costante e reale coappartenenza dei tre parametri sopra enunciati.

Vediamo ora come essi hanno funzionato nella presente congiuntura del cambiamento della Costituzione. 
[continua]

Nessun commento:

Posta un commento