lunedì 3 novembre 2014

il primato politico della lotta economica

"Il lavoro non sia terreno di scontro politico. Non si può sfruttare il dolore dei cassintegrati, dei disoccupati, dei precari". Una frase di tal tenore ideologico Renzi non aveva ancora avuto il coraggio di dirla. ora l'ha detta, e mette fine ai dibattiti se lui, Renzi, sia di destra o di sinistra. per quale motivo il lavoro non dovrebbe essere terreno di scontro politico, quando la costituzione sancisce proprio che la repubblica è fondata sul lavoro? E se non vogliamo prenderla dal lato della costituzione, per quale motivo l'attività che consente a donne e uomini, giovani e no, di progettare la propria esistenza non dovrebbe essere luogo di scontro politico, di dissenso, di richiesta di avere voce e rappresentanza? Se Renzi pretendesse (non è sicuro) di essere leader di un partito di centro-sinistra (per quanto all'acqua di rose: ma sta pur sempre nella sinistra europea) allora dovrebbe rispondere a questa domanda: se non la lotta per i diritti dei lavoratori contro lo sfruttamento del capitale finanziario, che cosa definisce la sua sinistra? lo dica, e poi gli elettori del pd decideranno, ma lo deve dire a chiare lettere. tagli (agli sprechi, certo, ma anche tagli e basta), riforme istituzionali e aumento della produttività non sono sufficienti per definire una politica di sinistra, così come non lo è nemmeno definirsi "riformista". il riformismo deve la sua colorazione politica al contenuto delle riforme, non alle riforme in se stesse – una ovvietà che oggi molti sembrano dimenticare.

Non voglio addentrarmi nello sviluppo della sinistra europea degli ultimi 30 anni. Mi sia concessa una nota su questo, però. La lotta per il riconoscimento dei diritti civili ha preso da tempo il posto della lotta per i diritti economici e sociali; ciò è stato determinato dalla fine del ciclo di lotte economiche che vedeva la classe dei lavoratori operai come il soggetto centrale della lotta politica. Fine dell'unione operai-Partito, fine della rappresentanza politica di un soggetto economico ben definito. A ciò è seguito lo spostamento dalla lotta economica alla lotta per il riconoscimento civile e sociale e nuove battaglie su altri fronti, per esempio l'ecologia. In generale: dalla lotta per l'uguaglianza alla lotta per le libertà. Tutto questo è risaputo, o almeno è già stato studiato e quindi disponibile. Ciò che non è altrettanto evidente è che questo trend ora non è più perseguibile, e che si innestava su un fatto economico: la crescita rendeva secondaria (erroneamente!) il problema della distribuzione del reddito. Quando questa condizione viene meno, il problema della distribuzione torna a galla. Precari, cassintegrati, disoccupati giovani e no, lavoratori a chiamata con malattia non pagata (ti rompi una gamba? Fattacci tuoi) reclamano (o cominciano a farlo) i diritti del lavoro, il che vuol dire: il lavoro come attività produttiva deve essere incluso nella sfera politica, non ne è separato. Renzi invoca la crescita e dice che dobbiamo tornare a crescere (verso dove, per lui non è un problema). Questa è l'unica possibilità che ha per silenziare la questione dei diritti del lavoro: tornare al modello socialdemocratico, in cui la crescita garantiva una distribuzione non equa, ma che “accontentava” anche i lavoratori. Per questo per lui il tempo stringe, per questo ha bisogno di rapidità.

Cgil e Fiom rappresentano il ritorno del rimosso, gli unici che sono ancora capaci di portare la lotta sul livello economico. Si capisce che Renzi non coglia dialogare con loro e faccia di tutto per accreditarli come residui di un tempo superato: è un tempo che vorrebbe tremendamente superare. Perché il punto è che la rinascita di una lotta di classe (necessità impellente: ridefinire il concetto di classe, che non è più il proletariato) a livello economico che fa (ri)nascere una nuova coscienza politica – è sempre stato così, e il perché si capisce da sé. Prima viene la lotta economica nei luoghi dove lo sfruttamento ha luogo, poi l'organizzazione politica. Questo significa che c'è urgente bisogno di organizzare una lotta sindacale che possa affiancarsi alla lotta della FIOM. E qui si vedono chiaramente anche gli errori della CGIL negli ultimi trent'anni, nell'abbandono delle nuove identità di lavoro (sindacato dei precari Nidil). Zero organizzazione su questo versante, pochi sindacalisti generosi lasciati soli in condizioni disperate. C'è bisogno di urgente organizzazione di un sindacato dei precari, perché oggi la lotta degli operai classici non basta più. In questo senso, e solo in questo, la lotta della Fiom può apparire anacronistica. Ma nel momento in cui ci fosse, al fianco degli operai, una massa di giovani precari, di donne e uomini non più giovani ma precarizzati negli ultimi anni di crisi, allora sarebbe ancora una lotta anacronistica? O non sarebbe piuttosto una lotta delle generazioni presenti e future? Avrebbe ancora Renzi il coraggio di dire che “non si tratta con i sindacati” (una sentenza bismarkiana!)?


La lotta della Fiom può e deve diventare l'occasione per rilanciare la lotta economica su più larga scala. Se tutta la massa di lavoratori precari, e tutti coloro che sono oggi sfruttati dalla ristrutturazione del sistema capitalistico in crisi, scendessero in piazza, il governo non potrebbe certamente più ignorarli. È in questo momento responsabilità in primo luogo del sindacato tentare di organizzare un più vasto fronte di protesta e lotta, attrezzandosi anche a difendere i lavoratori precari per restituire loro il diritto allo sciopero (che naturalmente non hanno più). Se il sindacato non fa questo passaggio, allora sì che potrà essere facilmente accusato di difendere solo il passato. Altrimenti, l'unica accusa sarebbe quella di difendere un passato che è ancora presente, e che politicamente il governo disprezza.

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lunedì 27 agosto 2012


LO STRANO CASO DI J. ASSANGE E MR. USA - un sommario.


il caso Assange getta luce sulle limitazioni del diritto di informazione nei cosiddetti paesi democratici, USA in testa. fino a che punto la nostra democrazia tollera che "si sappia"? e fino a che punto una democrazia che pone un limite (ovviamente, per supposte ragioni "di sicurezza", il vero spettro del XXI secolo) è democratica? un prezioso riassunto della vicenda in un momento delicatissimo della storia di Wikileaks.

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venerdì 27 aprile 2012

IL GOLPE COSTITUZIONALE. 10 TESI SULL'ATTUALE SITUAZIONE DEMOCRATICA (parte terza e ultima)



per vidualizzare l'articolo completo: http://yorickthefool.blogspot.co.uk/p/il-golpe-costituzionale-10-tesi.html)


[...] Vediamo ora come essi hanno funzionato nella presente congiuntura del cambiamento della Costituzione.



1. la costante e reale possibilità di protesta

Nel nostro paese la possibilità di protesta esiste. Si possono indire manifestazioni, si possono contestare i politici, ci si può opporre senza essere incarcerati (entro certi limiti). Questo diritto è sancito costituzionalmente. Se ci vogliamo opporre ad una norma, quale ad esempio il pareggio di bilancio in costituzione, possiamo organizzare una manifestazione per bloccarne l’approvazione. Questo, in teoria.

2. la costante e reale possibilità della possibilità di protesta

In teoria, perché per protestare bisogna conoscere che cosa è all’ordine del giorno. Un cambiamento di Costituzione in Italia è un processo regolato costituzionalmente, e prevede parecchi passaggi Parlamentari. Ma questa “lentezza” non è solo il lato negativo della pletorica organizzazione statale burocratica. Questa lentezza va di pari passo con la possibilità di dibattito, al contrario del decisionismo politico che opera in velocità per sottrarre il tempo all’opinione pubblica di informarsi e organizzarsi. Nella fattispecie di questa riforma costituzionale, scopriamo che è stata modificata, e scopriamo anche che l’iter è iniziato il 15 dicembre 2011. Avete visto qualche dibattito? No. La stampa e l’informazione ne hanno dato notizia, hanno seguito questo iter? Non mi risulta. Almeno, non in modo sostanziale. E nemmeno dopo l’ultima approvazione del senato c’è stato un dibattito attorno alla sostanza della riforma, né attorno ai modi. qualche articolo certo c’è stato, ma non tale da poter sollevare l’opinione pubblica, e questo perché la stampa classica se ne è ben guardata. Donde: o la stampa mainstream la ritiene “normale” (cioè tale da non dover suscitare dibattito), ma questo non sarebbe certo una giustificazione sufficiente; oppure ha interesse a non sollevare questa questione, perché in qualche modo connivente con l’attuale ceto politico. in ogni caso, la disinformazione su una norma che può avere effetti devastanti sui prossimi anni della nostra società, è stata pressoché totale. La stampa e i mezzi di comunicazione non hanno adempiuto a fornire la possibilità della formazione di un’opinione, e dunque di un dibattito, su un tema tanto importante come la modifica della Carta Costituzionale. Lo Stato e la Politica, a loro volta, non lo hanno fatto. Come conseguenza, i canali alternativi di informazione sono stati gli unici a trattare l’argomento, ma la loro limitata capacità di capillarizzazione ha confinato questo argomento alla “nicchia” dei pochi che, essendo pochi, sono anche impotenti. In questo caso, negli ultimi 5 mesi la condizione numero 2 (la costante e reale possibilità della possibilità di protesta), da cui dipende il parametro numero 1 (la costante e reale possibilità di protesta), non ha funzionato ed è stato sospeso. Se l’insieme dei tre parametri sopra definiti è vicino a definire una vita pubblica compiutamente democratica, allora siamo vicini a una sospensione di fatto di una pubblica vita democratica, in presenza tuttavia di una vita formalmente democratica. In questo caso la forma copre i processi reali del funzionamento democratico, e coprendoli, di fatto ne sancisce l’abolizione.

3. la costante e reale possibilità che la possibilità di protesta entri nel circolo dell’istituzione democratica, e che quindi possa incidere sul corso della deliberazione politica.

Essendo mancata la condizione due, nel caso di questa modifica costituzionale la possibilità di protesta è stata drasticamente ridotta; di conseguenza, il punto 3 non si è nemmeno posto. Nel caso di modifica della Costituzione, è previsto un referendum solo nel caso in cui l’iter parlamentare non segua il proprio corso dall’inizio alla fine. Ma ora il corso è finito, con l’approvazione dei due terzi del parlamento ad ogni tornata. Fine della storia, costituzione modificata. Si dirà che tutto questo è regolato costituzionalmente, e che quindi è perfettamente democratico (visto che la Costituzione nostra è democratica). Sì, ma oltre alla succitata distinzione tra processi formalmente e sostanzialmente democratici, bisogna aggiungere, in sfavore anche della “forma”, che il presente parlamento è eletto con una legge elettorale a forte contrazione della sovranità, e il governo che ha promosso questa modifica, sotto direttiva della Germania, è un governo tecnico. E questo governo tecnico non ha mai informato (non ha fatto nulla per informare, mi risulta: ma vi prego smentitemi) il “paese” (che esiste solo quando al ceto politico va bene, cioè quando servono i sacrifici) di questi cambiamenti, di cosa comporteranno, della direzione che ci costringeranno a prendere, della sostanziale frizione tra l’articolo 81 così modificato e altri articoli costituzionali (ad es.: introducendo il pareggio di bilancio non potremo investire per lungo tempo in cultura, o nel welfare). Formalmente, dobbiamo dire che tutto questo è democratico? Solo se continuiamo a usare come concetto di riferimento un concetto lasco di democrazia, cioè quello da dibattito televisivo e da comizio di piazza e da titolo di giornale. Se invece prendiamo come riferimento i tre parametri proposti sopra, dobbiamo dire che non lo è. La mancanza di una consultazione del “popolo sovrano” dovrebbe sempre, infatti, essere controbilanciata da una campagna di informazione trasparente sui processi in atto in parlamento, e dovrebbe accompagnarsi su un costante dialogo del parlamento con il proprio esterno. Così non è stato. Dobbiamo concludere che attraverso questo procedimento il popolo italiano è stato scavalcato nella propria sovranità: dunque: si è trattato di un golpe (tesi 1). Esso è stato costituzionale in due sensi: avvenuto all’interno dei limiti formali della democrazia; riguardante la Costituzione stessa.

E se d’ora in poi le riforme costituzionali avvenissero tutte così? non saremmo in una oligarchia? Parlamentare, certo, ma pur sempre una oligarchia. Inoltre il parlamento potrebbe approvare una serie di norme che estendessero il mandato di un parlamento da 5 a 10 anni: basterebbero i due terzi del parlamento. Questo rischio, ovviamente, fa parte del giocattolo democratico: esso funziona solo se tutti rispettano regole che non hanno propriamente un fondamento, perché sono sempre “pattuite”. Esse cioè possono essere infrante in qualsiasi momento (golpe). Ecco perché la gente reale, in carne ed ossa, deve sempre esercitare una pressione sul collo dei parlamentari, che, letteralmente, devono “averne paura”. Ed ecco perché tutto questo iter di modifica costituzionale si è svolto nel silenzio: una massa di persone che non sa, non fa nulla. La società italiana è stata ridotta a “paese”, e ad essa con questa mossa è stato imposto un “bene”. entrambi, per le tesi 4 e 5, non esistono. Sono solo, come anche un bambino ormai potrebbe vedere, la maschera ideologica dell’oligarchia economica, che tenta di far ripartire la macchina inceppata del capitalismo e dello sfruttamento. Per farlo, la democrazia (quella dei tre parametri, tesi 6) non va bene. La volontà popolare deve essere o manipolata o esclusa da qualsiasi possibilità di protesta e deliberazione. La stampa deve essere comprata ed allineata. Il silenzio deve calare sui provvedimenti più pericolosi. Pericolosi, sì, e per due motivi almeno. Per il modo in cui questo golpe è stato compiuto, e per la sostanza che introduce nel nostro paese: fine degli investimenti, controllo sul pareggio del bilancio, tagli della spesa in eccesso (cioè: welfare, cultura…). E tutto questo con la connivenza di questa classe politica. E senza che i partiti facessero sapere niente. (ma i “rimborsi” ai partiti non dovrebbero servire loro per fare politica? E cos’è fare politica se non creare dibattito, informare, riunire, promuovere la discussione e la decisione comune?). Enuncio pertanto altre due tesi, che spero di aver provato nel corso del ragionamento.


Tesi 7: per il “bene del paese”, al popolo è stata sottratta ogni possibilità di conoscenza, dibattito e al limite intervento su una materia riguardante “il bene del paese”.

Tesi 8: Questo cambiamento della Costituzione, per le modalità con cui è avvenuto, è un golpe.

A questo golpe hanno partecipato gli apparati che dovevano garantire il parametro 2 (possibilità della possibilità di protesta = informazione). Vi hanno partecipato le istituzioni, gran parte della  Stampa nazionale, le Televisioni, le Radio, la Chiesa. Un nuovo modello è stato imposto costituzionalmente al nostro paese, e noi non ne sappiamo nulla, non ne abbiamo mai saputo nulla. Siamo stati privati della nostra sovranità senza nemmeno accorgercene. Ma chi ha occupato le televisioni, il parlamento, ecc? chi ha compiuto questo colpo di stato? Chi sta tentando (perché forse siamo ancora in tempo) di farci varcare questa soglia epocale, a farci entrare in una nuova era totalmente subordinata all’idea del profitto? (cosa che viene mascherata dalla parate moralisticheggianti delle conferenze sulla salute del pianeta, dove vengono assunti rassicuranti impegni ecologici). Non trovo altro nome che lo “spettro del capitale”. Uno spettro, però, molto reale. Ne derivano altre due tesi:

Tesi 9: l’ Italia non è un paese democratico (vedi tesi 6 e 7)

Tesi 10: l’Italia è un paese fondato sul pareggio di bilancio (poiché tutto dovrà essere subordinato a questo principio), quindi non sul lavoro (art. 1) e nemmeno sul “bene del paese”, che non esiste e che nella fattispecie equivale al “bene dei più ricchi e che se la possono cavare senza problemi da sè”. Per gli altri, il “bene” un giorno verrà. Forse.

giovedì 26 aprile 2012

IL GOLPE COSTITUZIONALE. DIECI TESI SULL'ATTUALE SITUAZIONE DEMOCRATICA (parte II)


Il bene del paese

"Riusciremo a superare le difficoltà economiche e sociali se tutti, forze politiche, economiche, sociali e produttive, lavoreremo nell'interesse del paese e del bene comune". Mario Monti, ieri 25 Aprile 2012.

Il “bene del paese”, come abbiamo detto, è uno slogan buono per tutti i regimi politico e per tutte le stagioni. Sarò un po’ banale, ora. Ma è meglio fare le cose con calma e capirle per bene. Il “bene del paese” invoca i concetti di “bene” e di “paese”. Oggi il bene viene identificato con il concetto di “sviluppo”, e questo con quella di sviluppo “economico”: e su questo non ci possono essere dubbi (il mantra della crescita non si riferisce certo ad una crescita morale, estetica, in altezza… in barba a Dostoevskij, quel grande e implacabile sognatore, il cui ultimo messaggio fu “la bellezza salverà il mondo”). Il bene è dunque qualcosa di economico (ma non nel senso che “costa poco”….). Il “paese”, da parte sua, è un astrazione cui si fa ricorso quando si devono introdurre delle norme che a loro volta introducono “sacrifici”: una palingenesi, fin dall’antichità, passa sempre attraverso un momento sacrificale (lo sparagmos di Dioniso, il sacrificio di Isacco, la crocifissione di Gesù, etc.). Allora il paese funziona come concetto di coesione e di unità, una unità che viene richiesta per perseguire l’obiettivo del bene del paese, e cioè: dello sviluppo economico. Ci sono motivi di pensare che questa unità e coesione siano molto rischiosi in fatto di politica. Il paese, come referente sociale di questo concetto, si frantuma in una serie di gruppi e di classi sociali. Una certa tradizione ha mostrato che i loro interessi sono più contrastanti che solidali. Una certa esperienza storica ha mostrato che quando le cose vanno bene, cioè quando l’economia capitalista va a gonfie vele, i loro interessi possono convergere fino ad un certo punto, perché i flussi di denaro in eccesso coprono e sovrastano le loro differenze di base. Un matrimonio di interesse li tiene uniti. Un matrimonio di interesse, però, entra in crisi quando in crisi entra l’interesse. E i gruppi contrapposti riappaiono (non erano mai spariti). Ma essi vengono ri-amalgamati dal lessico politico, che li raggruppa sotto il concetto di “paese”, che viene a sua volta congiunto con il concetto di “bene”. I due maggiori partiti italiani condividono questo lessico universalistico. Essi parlano di paese e di bene. Così facendo, tacciono le differenze reali esistenti all’interno del “paese”. E così facendo, si rendono colpevoli di mistificazione. Traiamo una conseguenza, in forma di tesi.
un esempio della retorica del "sacrificio" e del "bene del paese" nei sondaggi.
 il  57% degli italiani sembra però più intelligente dei politici e dei sondaggisti.

Tesi 3: il “paese”, così come è usato correntemente dai partiti politici, non esiste. Da cui deriva un’altra tesi. (questa tesi ha un’importanza politica enorme: ecco perché non viene mai riconosciuta)

Tesi 4: “il bene del paese”, poiché il “paese” non esiste, è un concetto non falso ma fittizio. Ma se è fittizio, perché viene utilizzato?

Potremmo chiederci che cosa si consegue con l’impiego di questo concetto, e domandarci anche che cosa non si conseguirebbe senza il suo utilizzo. Emergerà una stretta connessione con il concetto appannato di democrazia come oggi è stata imposta (da un certo ceto politico) in Italia (“crocette” + “illusione”) e con il concetto di golpe che proponiamo. Innanzitutto, il suo accostamento con il “bene”, di cui “il paese ha bisogno”. Si dice infatti, e tutti i partiti politici lo dicono, che “il paese ha bisogno di….”. Il paese ha bisogno del “bene”, ma questo suo bene è sempre, e davvero sempre, identificato con lo “sviluppo economico”. Il paese ha bisogno di crescita, etc. Nell’attuale congiuntura politico-economica, per tornare a crescere il “paese” ha bisogno di risanare i conti, di fare tagli, di ridurre gli sprechi, di modificare gli investimenti, di diminuire lo spread, di riguadagnare la fiducia dei mercati. In ultima istanza, sembra che per tornare a crescere (cioè: per tornare in vista del proprio bene) il paese abbia bisogno di risanare i conti e diminuire la spesa. Ecco perché si invoca l’unità del paese. La si invoca perché la compressione della spesa non può che ricadere sul “paese”. I “sacrifici” cui il “paese” si deve sottoporre vengono detti necessari per il conseguimento del “bene”. Si crea, grazie a questo lessico sapientemente adottato, la percezione di uno sforzo comune per un bene comune. Tutti devono soffrire, perché tutti un giorno godranno del bene finalmente raggiunto. Ciò che non si dice è però che i sacrifici, che tutti fanno e che tutti devono stoicamente accettare, hanno una caratura diversa a seconda di ciò che il “paese” realmente è, e cioè composizione eterogenea di gruppi e classi sociali, che non stanno in condizione di parità quanto alle condizioni di partenza e nemmeno di arrivo. Un aumento della tassazione ha effetti diversi nei vari gruppi e classi sociali: effetti psicologici, effetti sociologici, effetti culturali, oltreché naturalmente effetti economici. Una contrazione del welfare, anche (alcuni potranno permettersi un otorino privato, altri no). Inoltre, il “bene”, identificato con lo sviluppo economico per il quale sarebbe ora necessario “tagliare” e “fare sacrifici”, è assunto anch’esso come qualcosa che avrà una ricaduta coerente su tutto il “paese”, mentre si sa che non sarà affatto così. Anche ammettendo che tra qualche anno l’economia ricomincerà a crescere, non è affatto detto che tutte le misure ora tagliate verranno automaticamente reintrodotte, che verranno dati più soldi per i servizi pubblici territoriali, che verranno tagliati gli umilianti contratti a progetto, che si reintrodurrà il lavoro a tempo indeterminato, eccetera. Non sarà così. Il mito del sacrificio proietta un’idea di futuro indeterminato dominato dal bene. questa connessione della “politica” così come viene intesa e la dimensione del futuro andrebbe analizzata più a fondo, ma per ora propongo la seguente domanda, che cerca di legare assieme il fatto che il “paese” non esiste (Tesi 4) con il problema del “tempo della politica”, immancabilmente volto verso il futuro. Così facendo, non si trascura anche quello che è il “bene” di alcuni gruppi sociali… ora? Il “bene” per un operaio disoccupato con due figli è davvero che si tornerà a crescere? Non è anche poter portare il proprio figlio ad una scuola pubblica decente ora? Non è garantirgli la possibilità tra uno o due anni, magari, di poter accedere all’università? Tutte queste cose, tra molte altre, non potranno essere fatte dopo. Nel frattempo, una parte del paese (altri gruppi e classi sociali) non subiscono veri tagli, e continuano la propria vita precedente, con uno standard magari diminuito, sì, ma tagliato soltanto di una vacanza alle Barbados verso Febbraio. I loro sacrifici sono comparabili con quelli di altri gruppi sociali? Il modello quantitativo dei tagli “equamente” distribuiti non ha, purtroppo, un funzionamento solo quantitativo. Certo, il problema non è risolto per il fatto di essere posto. Ma lo è meno se non è nemmeno posto. Ecco dunque una nuova tesi.

Tesi 5: il “bene del paese” non esiste sia per la tesi 4 sia perché il “bene” è un concetto vuoto e indeterminato. Il “bene”, nella locuzione “il bene del paese”, non esiste più di quanto esista il paese a meno di assumere dei concetti ideologici sia di “bene” che di “paese”.
                                                                                                                                    
Arriviamo ora al problema della connessione del concetto “bene del paese” con il concetto di democrazia come viene oggi vissuto e attuato (rimane ovvia una cosa: ci sono gruppi di persone che praticano e lottano per una democrazia diversa, oggi di solito chiamata diretta. Ma, purtroppo, rimane il fatto che essi non sono la maggioranza). È possibile, infatti, che una certa percezione di ingiustizia, o di inganno, o addirittura di presa in giro, venga sentita da quella parte di “paese” che non si riconosce nella definizione di “paese” quale è usata oggigiorno. È possibile ad esempio che essa vogliano protestare (mostrando che il “paese” non esiste… quale scandalo!). Come sappiamo, la percezione dell’ingiustizia va di pari passo con l’accesso all’informazione, e l’accesso all’informazione può regolare la formazione dell’opinione e del consenso. Abbiamo dunque tre elementi: 1) la costante e reale possibilità di protesta e 2) la costante e reale possibilità della possibilità di protesta e 3) la costante e reale possibilità che la possibilità di protesta entri nel circolo dell’istituzione democratica, e che quindi possa incidere sul corso della deliberazione politica.  Il secondo elemento regola il primo. Questo secondo elemento è l’informazione. Il terzo è invece la possibilità di concretizzazione istituzionale del primo. Come definizione di “democrazia” propongo la costante e reale coesistenza di questi tre elementi all’interno dello spazio pubblico. Non è una definizione esaustiva, evidentemente; è piuttosto una metadefinizione, al cui interno devono restare specificati i meccanismi pratici di strutturazione di una democrazia realmente esistente. Ma una democrazia funzionante non può rinunciare alla contemporaneità di questi tre parametri.
Vorrei ora sostenere che il modo in cui la costituzione è stata recentemente cambiata a proposito del cosiddetto “pareggio di bilancio” non risponde a questi tre criteri; che essa non è quindi democratica; che essa può essere dunque definita un golpe nel senso della tesi 1. Ma prima enuncio la tesi 6:

Tesi 6: la democrazia può essere meta-definita come la costante e reale coappartenenza dei tre parametri sopra enunciati.

Vediamo ora come essi hanno funzionato nella presente congiuntura del cambiamento della Costituzione. 
[continua]

martedì 24 aprile 2012

IL GOLPE COSTITUZIONALE. DIECI TESI SULLA ATTUALE SITUAZIONE DEMOCRATICA. (parte 1)



Il 24 Aprile è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale la modifica degli articoli 81, 97 e 119 della Costituzione Italiana. Di questa modifica in Italia si è parlato davvero assai poco, così come degli effetti pratici che essa potrà avere. Perché se ne è parlato così poco, mentre negli altri paesi dell’UE la questione è stata al centro del dibattito elettorale e politico? Come si sa, la modifica della costituzione prevede un lungo iter parlamentare, con eventuale referendum confermativo in caso di mancanza della maggioranza qualificata dei due terzi. In questo caso, invece, la maggioranza c’è stata e nonostante l’appello di qualche attivista perché il Senato non desse l’approvazione finale (rendendo così necessario un referendum e, quindi, un dibattito pubblico), tale approvazione ha eliminato qualsiasi possibilità di consultazione popolare. Ovvero, di informazione. Il Palazzo ha proposto, ha approvato, ha taciuto. E la stampa? Quanti cittadini sanno che l’iter è iniziato lo scorso 15 Dicembre 2011? Perché i mezzi di comunicazione mainstream non hanno favorito un dibattito su un tema così delicato per il nostro futuro? Secondo le opinioni di economisti e attivisti, questa modifica sancisce la fine ufficiale del keynesismo. In concreto, significa che non si potrà più spendere per far ripartire l’economia, che oggi non si potrà finanziare il welfare, che non si potrà ristrutturare l’università, la cultura, la scuola. E tutto questo è avvenuto nel silenzio più totale del Palazzo (concordi tutti, manco a dirlo).

proponiamo qui una  analisi di ciò che è avvenuto, divisa in tre parti. qui di seguito la parte I.


Il golpe

Un golpe è un colpo di stato. Noi oggi viviamo in un mondo democratico, liberale, capitalista, in cui pensiamo che un golpe sia una parola passata di moda, buona per descrivere soltanto qualcosa del passato o eventi contemporanei in mondi lontani. non sarà che ci è sfuggito il rinnovamento semantico di questa parola? Quindi la domanda è: esiste una “attualità” del golpe? In questo post vorrei sostenere che esiste, e che è appena stato compiuto senza che noi ce ne accorgessimo. Qui, in Italia, dal nostro governo, e con l’assenso di tutte le forze istituzionali che contano. Mi direte alla fine, se avrete la pazienza di leggere fino in fondo, se sto esagerando. Ma a mio modo di vedere, quello che è successo è talmente grave da meritare una parola forte, per provare almeno a farsi sentire. Solo un matto potrebbe parlare di “golpe” in Italia, nel 2012. Del resto, non ho a caso invocato “yorick the fool” a patrocinare le mie riflessioni.

Offro una definizione minimale: un colpo di stato scavalca la sovranità Lo può fare in molti modi. Può farlo mostrando che lo fa: oggi golpe così non se ne vedono in giro. Può farlo, inoltre, dando l’idea di farlo per il bene del paese. Tutti i colpi di stato rientrano in questa categoria: mai nessuno è salito al potere dichiarando di volere il male del paese. Quindi: 1) Il golpe che oggi avviene, e di cui mi voglio occupare, è un incrocio di queste due categorie: mostra di non essere un golpe (primo parametro, volto in negativo), perché chi lo vuole negare lo fa additando il suo incardinamento nelle istituzioni democratiche e la sua dipendenza da procedure democratiche. Ma, come vedremo più oltre in modo sintetico (ma spero efficace), con buona pace del proceduralismo e del formalismo, i criteri formali non sono mai sufficienti per definire una vita democratica. Si tratta di una deficienza sostanziale del concetto di democrazia (di cui sarà meglio parlare un’altra volta). 2) afferma di farlo per il “bene del paese”, cosa che come abbiamo detto è una costante di tutti i colpi di stato: di conseguenza, essendo un ubiqua forma di autolegittimazione, può subito essere scartata come ininfluente per la conoscenza dei processi politici (con conoscenza intendo: non idea vaga, approssimativa, ma un’idea il più possibile “chiara e distinta”. Lascio perdere se una tale idea sia possibile in assoluto: per ora mi basta trovarvi d’accordo sul fatto che esistono alcune idee più chiare e più distinte di altre). Questo criterio (il “bene del paese”) appartiene sia ai processi democratici che a quelli non democratici. Monti è stato chiamato per il bene del paese, come Berlusconi si è candidato per il bene del paese, come il PD si è formato per il bene del paese. Tutti per il bene del paese. Ma più un governo, o un parlamento, insiste sul “bene del paese”, più è lecito sospettare qualcosa al di sotto di questi richiami. In una democrazia il bene del paese dovrebbe essere scontato. Ma cos’è il “bene del paese”? Prima di analizzare quest’espressione, vorrei consolidare  due tesi.

Tesi 1: un golpe è uno scavalcamento di sovranità.

Non userò quindi questa parola per indicare i concetti di totalitarismo, dittatura, e simili. La dittatura di solito si costruisce con un golpe maggiore (Golpe) che annulla il bisogno di tutti gli altri golpe secondari definiti come in Tesi 1. In assenza di quel Golpe (che solitamente è militare), formalmente non c’è un inizio di dittatura. Ma l’imperfezione del concetto di democrazia sta nel fatto che la sovranità può sempre essere scavalcata, e quindi ci possono essere dei golpe (con la “g” piccola) pur restando un paese, formalmente, all’interno di una cornice democratica. Le dichiarazioni di coloro che si impegnano nel portare a termine un golpe (anche piccolo) nel riaffermare lo stazionamento in un orbita democratica fa leva sia sul fatto che “democrazia” è un concetto (dico: concetto) intricato e problematico, e allo stesso tempo si appoggia sulla vaghezza del concetto comune di democrazia (quello che lo zio, la mamma e il papà, gli amici, intendono con questa parola). In un certo senso, nel dibattito politico, democrazia significa poco. Da cui la seconda tesi.

Tesi 2: nel dibattito politico quotidiano, e quindi nella società mediatizzata in cui ci troviamo a vivere, “democrazia” non è un concetto. (Ovvero, quando sentiamo questa parola non ci si presenta alla mente un’idea chiara e distinta, ma abbiamo spesso la sensazione che sia usata un po’ come un passe-partout.)

Mi spingo anche un po’ più in là. Non solo viene usato come un non-concetto, ma viene di proposito usato come un non-concetto. Il significato di questo concetto si allarga, e quindi si sfuma, e quindi tutti “ci sentiamo” in democrazia. In realtà il momento democratico è ridotto al puro momento elettorale (cosa di per sé non disdicevole, ma la democrazia non vive di elezioni e basta) in cui la sovranità è contratta da una legge elettorale particolare, e vive quotidianamente nei sondaggi, che sono la nuova fonte della legittimità politica. Senza inoltrarci ora nella questione della formazione (libertà di informazione, nuove tecnologie, manipolazione classica e manipolazione informatica) dell’opinione, bisogna almeno riconoscere che una democrazia che vive quotidianamente sui sondaggi e ogni tanto su un voto azzoppato, è una democrazia in cui la sovranità del demos vive una vita un po’ particolare. Per ora registriamo che il concetto e la pratica democratica vivono attualmente un rapporto di “restrizione” (voto a crocette) e di “illusione” (legittimità confinata ai sondaggi, fatti (cioè pagati) un po’ da chiunque). Forniremo poi tre parametri con i quali si cercherà di definire, nel modo più generale possibile, il concetto di democrazia e quindi di sovranità.

Il bene del paese

Il “bene del paese”, come abbiamo detto, è uno slogan buono per tutti i regimi politico e per tutte le stagioni. Sarò un po’ banale, ora. Ma è meglio fare le cose con calma e capirle per bene. Il “bene del paese” invoca i concetti di “bene” e di “paese”. Oggi il bene viene identificato con il concetto di “sviluppo”, e questa con quella di sviluppo “economico”: e su questo non ci possono essere dubbi. Il bene è dunque qualcosa di economico (ma non nel senso che “costa poco”….). Il “paese”, da parte sua, è un astrazione cui si fa ricorso quando si devono introdurre delle norme che a loro volta introducono sacrifici. Allora il paese funziona come concetto di coesione e di unità, una unità che....  [continua]

per rimanere informati sull'uscita delle parti II e III clicca qui

qui, intanto, alcuni links ad articoli usciti sul tema.




domenica 26 giugno 2011

PICCOLA ANALISI DELLE ANALISI REFERENDARIE (e abbozzo) / 2

ecco qui il seguito del post pubblicato qualche giorno fa, con le mancanti interpretazioni che gli sconfitti del referendum hanno fornito.

3 - i vincitori sono virtuali (e fancazzisti)
Si dice spesso che gli amici non si scelgono, ma TI scelgono. Brunetta ha scelto Stracquadanio, o Stracquadanio ha scelto Brunetta? Sia come sia, la loro amicizia sembra essere una questione di affinità elettiva, come avrebbe detto Goethe (se di fronte a tale paludoso e puteolente panorama politico non avesse scelto di far della vita letteratura, suicidandosi proprio come il suo Werther ma per tutt’altre ragioni). Stracquadanio (guardatelo qui) rispolvera addirittura, tanto è sicuro di sé, categorie politiche di sinistra: l’egemonia gramsciana. Parlando da un ambone ad una platea ammiccante, spiega perché in rete le voci critiche sono così preponderanti: perché sono per la maggior parte lavoratori statali, che non fanno un cazzo (sic) dalla mattina alla sera, che continuano ad andare su facebook a cliccare “mi piace” a caso qua e là, e che poi alle due hanno finito di lavorare (ma per lui non hanno mai cominciato….) e vanno a casa a cliccare ancora, e ancora, e ancora, fino al clic orgasmico. Mentre lui, l’inflessibile e produttivo Stracquadanio, lavora. Pensa, dice, perché deve corredare le tesi che assevera con fatti. Lui lavora e pensa; gli altri non fanno un cazzo, e sono per giunta pochi, ma siccome non fanno un cazzo si moltiplicano nell’ambiente virtuale, e sembrano egemonici… ma state tranquilli, dice alla platea, non lo sono. Sono solo fancazzisti. Peccato che il vero fancazzista sia quello che gli ha dato la poltrona, il grande Charlus delle notti arcoriane, che fa ben altri “clic”, che smanetta altro che mouse, che non ha né tesi da sostenere con argomenti, né opinioni politiche da discutere con chicchessia. È il tuo fare politica, Stracquadanio, che è virtuale, rassegnati.

4 - elezioni o erezioni?
Che ci sia una certa confusione, all’interno dell’area di centrodestra, tra educazione politica ed educazione sessuale, lo sappiamo da tempo; di ciò, dunque, non ci meravigliamo più. La notizia è, semmai, che anche i sedicenti intellettuali della stessa area prendono sul serio questa confusione e, lungi dal considerarla come un cancro da estirpare, la riconoscono implicitamente come l’anima della politica aujourd’hui. parlerò qui di una posizione che è stata assunta da Feltri, e talvolta anche da Belpietro. Il primo è quello che fa ancora il giornalista dopo essersi inventato (e aver arrogantemente difeso le sue fonti, rivelatesi poi fantasiose) il “mistero Boffo” (!) di sana pianta, e che lavora con uno (che è per l’appunto “l’altro”) che dice di aver subìto un fantomatico attentato di cui nessuno ha più saputo nulla. Cosa sostengono F&B? In una sovrapposizione totale (ma inconfessata) di erotismo e politica, hanno più volte posto l’attenzione sull’appeal berlusconiano, che “non è più quello di un tempo”. Il progetto politico del centrodestra italiano è appeso, apertis verbis, ad una asticella che pare non alzarsi più tanto facilmente come un tempo. Nell’estrema raffinatezza intellettuale dei loro discorsi (?), F&B esprimono l’impotenza concettuale del popolo conservatore, e ci fanno sospettare che le imposizioni europee della BCE siano l’unico fattore che, anziché aver costretto il governo a fare una cosa piuttosto che un’altra, ha costretto il governo a fare qualcosa. D’altra parte, Minzolini, nell’ultimo suo editoriale prezzolato, ha menzionato, tra le cose fatte dal governo (“non si può negare che questo governo abbia fatto molte cose”, ha detto) la riforma dell’università (tre anni fa, e una volta si diceva: piuttosto di far male, meglio non fare), e il federalismo fiscale. Quest’ultimo, cos’è, oltre il suo vago concetto? Ma F&B si auspicano che Berlusconi torni a vibrare colpi con la sua scure, che ritrovi il suo appeal per vincere di nuovo le elezioni. E di fronte alla convinzione di Pansa che Berlusconi dovrebbe ritirarsi, in quanto elemento di contenimento e soffocamento di un processo di rinnovamento interno del Pdl, Belpietro ha replicato che in fondo, sebbene l’appeal di Berlusconi sia un po’ in calo, rimane comunque eccezionale: cestinarlo sarebbe una follia. Ciò che indica due cose, almeno: che sono consapevoli che il partito non è nulla e che tutti (di)pendono dal Charlus di Arcore; che ciò che conta, in politica, non è articolare un progetto e produrre condizioni migliori per i concittadini: ma è vincere nel momento della verità, quello dell’erezione…ehm, pardon: dell’elezione, ovviamente. (Ma che differenza fa?)

5 - la questione della responsabilità (Lupis in fabula)
A fronte di quanto detto finora, c’è addirittura la possibilità che Lupi sia un buon uomo. Non sapeva cosa dire, subito dopo la batosta, e ha ripetuto l’eterno ritornello delle responsabilità: ognuno deve assumersi le sue responsabilità, eccetera eccetera eccetera. L’ho sentito dire però una cosa del tipo: “è evidente che, anche nell’elettorato del centrodestra, c’è un malcontento…. Ecc.”. Qual è l’elemento avulso, estraneo, abnorme di questa frase? “è evidente”. Poiché sappiamo che l’evidenza non è una questione di “visione” diretta di una realtà, e che al contrario ogni visione passa attraverso alcune lenti interpretative (mi fermo subito in questa deviazione un po’ troppo filosofica), allora dobbiamo dire che Lupi è stato colto qui in fabula. Sta attivando, infatti, una griglia interpretativa diversa da quella che mettono in gioco i Vespa (negazione con sostituzione di altri mondi), gli Stracquadanio (virtualizzazione), i Feltri e i Ferrara (contrazione dell’appeal personale), i Formigoni (autismo interpretativo). Il problema di Lupi è il disorientamento, poiché nel frattempo l’idea della “responsabilità” è passato sotto l’appannaggio di Scilipoti, e di conseguenza “assumersi le proprie responsabilità” diventa qualcosa di pericolosamente vicino a diventare prosseneti compiacenti. Ma Lupi dice che c’è un malcontento, e non aggiunge altro (se non appunto l’evidenza che questo malcontento semplicemente c’è, sta lì in attesa di essere interpretato). Proprio questo silenzio di Lupi, questo scacco cui egli si sottomette, la mancanza di una soluzione pronta, è ciò che lo rende diverso da tutti i suoi compagni d’opinione. Ma il fatto che egli rimandi “alle segrete stanze” l’articolazione di questa evidenza ci dice che questa evidenza non verrà mai presa sul serio da alcuno.

il lavoro, però, non è qui concluso. come hanno analizzato l'evento referendario i partiti dell'opposizione? è chiaro che qui una certa attenzione deve andare al Pd, al suo aver vinto e non aver vinto allo stesso tempo (cosa da funambolo di primissima qualità...!). Qual è il significato della lamentela di Di Pietro di non essere stato chiamato dal Pd per organizzare l'azione di opposizione? e qual è il senso del fatto che i parlamento le opposizioni non sono riuscite a redigere una mozione di sfiducia condivisa? queste domande potrebbero orientare una riflessione che porti ad illuminare la relazione oggi esistente tra i movimenti di massa, luoghi capaci di articolare proposte contenutistiche e metodi di lavoro e di creazione di contenuti, e i partiti. può darsi (ma non so dirlo con certezza, poiché questa analisi è solo all'inizio) che l'atteggiamento dei partiti che hanno vinto (con riserva, nel caso del Pd) ci dica anche di più di quanto i deliri interpretativi dei protagonisti del centrodestra possano fare.


giovedì 23 giugno 2011

PREPARAZIONE DOSSIER-RASSEGNA SU LEGA NORD

un'idea probabilmente un po' folle...ma forse no. elaborare un memorandum collettivo, una "memoria politica" da ritirare fuori al momento opportuno, per provare ad evitare che la politica mediatica soffochi quella più razionale e basata su parole e fatti. quest'idea  nasce dal fastidio ormai davvero cutaneo che vivere in una città leghista mi procura (Verona). oltre al fastidio di sentire, continuamente, dire che Tosi è il sindaco più amato d'Italia. e oltre al fastidio di vedere, ogni giorno, quasi su ogni semaforo, adesivi leghisti (da domani comincerò a scendere dalla macchina, e a staccarli, in quanto sono ovviamente abusivi. tra l'altro: veronesi, fatelo anche voi!!). ma quanto al sindaco più amato d'Italia: quali caratteristiche lo rendono così amabile e l'hanno reso così amato? quali grandi iniziative politiche? credo che gran parte della sua "amabilità" la tragga dal contesto nazionale, in cui la Lega ha saputo muoversi con una tal maestria contraddittoria da non esser eguagliata da nessuno. la Lega è la  forza politica più capace di fare della contraddizione il motore del consenso. in base a queste un po' confuse e veloci riflessioni, ho deciso non solo di seguire, ma di registrare tutte le dichiarazioni della Lega e dei suoi esponenti più in vista, nonché quelle di Tosi. l'idea è di ricavare un documentato schema di consenso comune (Lega in generale, Tosi in particolare), basato NON SUL FARE, ma sul dire e sul contraddire. (qualcuno mi dica cos'è stato fatto dalla Lega dal 94 ad oggi: il federalismo? hanno fermato gli sbarchi? cosa?)
comincio a farlo adesso perché Tosi ha già silenziosamente lanciato la sua campagna elettorale per la prossima primavera, liftandosi in tv la sua barba sempre di due giorni (come mi ha fatto notare mio fratello!) con patine di moderazione, con dichiarazioni sempre pacate, con ammiccamenti un tempo insospettabili.

l'idea è di registrare cose e dichiarazioni che poi i cittadini non ricorderanno nel flusso mediatico stordente della campagna elettorale, dove spesso la voce grossa leghista non risponde, ma azzera l'avversario (cosa che d'altra parte è anche COLPA DELL'AVVERSARIO STESSO.....). questo memorandum sarà lì a ricordare molte delle cose che la Lega ha detto e non ha fatto, detto e contraddetto, e potrà essere usato per chiedere a Tosi e a tutti i leghisti conto sul loro passato politico. chiedo pertanto a tutti un aiuto: segnalate (mandando mail, su fb) dichiarazioni degli esponenti leghisti, verificate se vi danno seguito, osservate le loro posizioni e il loro variare nel corso degli eventi.... e mandate! tutto entrerà nel vademecum. questo un primo abbozzo di partenza, buttato giù al volo


Marzo 2011 - la Lega Nord si dichiara contraria alla guerra in Libia, ma in parlamento vota con il governo per la missione. Nel generale clima di ostilità alla guerra, Calderoli si distingue per una proposta: via i militari dal Libano per recuperare liquidità. Non se ne saprò più nulla, ma i tg ne hanno parlato a più riprese.

Maggio 2011 - dopo il primo turno delle amministrative Tosi, in collegamento esterno (forse al programma della Gruber), dichiara che il programma di Pisapia è una “cosa pericolosa”. Il riferimento è all’idea che via Padova possa essere un “laboratorio”, parola che Tosi pronuncia con un tono tra lo sprezzante e il sarcastico. Secondo lui, lì l’unica cosa da fare è la “messa in sicurezza”.

Giugno 2011 – dopo aver accusato Berlusconi e il Pdl per la sconfitta a Milano, la Lega Nord tenta di uscire dall’impasse politica con l’idea (davvero coerente con lo scenario sociopolitico) dei ministeri a Milano. (questa loro la chiamano “proposta politica”)

Referendum – Zaia va a votare e invita al voto, Bossi disincentiva il voto domenica dopo aver visto i dati sull’affluenza. Solito scompiglio e solita mancanza di coerenza, spacciata per libertà di coscienza. 

19 Giugno 2011 – a Pontida la Lega Nord si ritrova al consueto meeting, dove continua mostrare baldanza a parole (soprattutto tenendo, sempre e solo a parole, sulle spine Burlesconi). L’analisi politica più rilevante di Bossi è: “non ci sono soldi, quindi basta guerra”. Come forza di governo, però, la Lega non fa un passo in questa direzione in parlamento, né ricorda agli elettori che la guerra in Libia l’ha votata lei. la strategia della Lega è questa: tutti i suoi esponenti, nelle tribune politiche, si dichiarano contrari, da Salvini a Tosi a Zaia; i suoi elettori, così, sono soddisfatti e imputano la responsabilità della guerra al governo, nel quale naturalmente sono anche loro. (Ma gli elettori leghisti non seguono le vicende politiche italiane e quindi dimenticano facilmente che gli stessi che sono contro la guerra hanno votato per la guerra? È questo è il tipico meccanismo leghista, che si qualifica, in tal modo, come forza di governo e di opposizione?)

forse è solo seguendo da vicino, con sguardo micrologico, questo fenomeno di quotidiana costruzione del consenso, che riusciremo a scalfirlo e farlo vacillare? io un po' ci credo.