sabato 25 settembre 2010

APPUNTI SULLA REGRESSIONE. Riflessioni sulla Lega Nord e sui nuovi balilla



Antefatto: una scuola di un piccolo paese lombardo è stata tappezzata con 700 esemplari del simbolo leghista, il famigerato “sole delle alpi”. Un accordo tra il ministro dell’Istruzione Gelmini e il ministro della Difesa (ex Guerra) riporta, sempre in Lombardia, lo spirito militare nelle scuole, a quasi 70 anni dalla scomparsa dei “balilla”. 
 Voglio evitare di nascondermi e caratterizzare gli episodi recenti in termini di regressione. Politica, sociale, culturale. Sono costretto perciò a definire che cosa intendo per regressione, rispetto a che cosa si regredisce/progredisce, pena la nebulosità retorica di tutta la seguente analisi. Trovare questo termine di definizione potrà permettere di pensare assieme, e non più in maniera separata, la politica, la società, la cultura. Nell’epoca della specializzazione massima questa può apparire una folle pretesa- tanto più che io non so abbastanza né di società, né di politica, né tantomeno di cultura. Ma in quanto un essere umano non può fare a meno di agire, ha il dovere di esplicitare i riferimenti della sua azione. E ciò che è bene che entri nella testa di ciascuno (sono un po’ duro ma sono molto arrabbiato) è che ogni scelta che viene compiuta presuppone uno schema cui si riferisce; lo schema può essere inconsapevolmente acquisito oppure deliberatamente scelto, e il deliberatamente scelto può essere più o meno compatibile con quello acquisito od anche, e questi sono i casi più interessanti, deliberatamente scelto contro quello inconsapevolmente acquisito. Il ruolo del pensiero è quello di fare chiarezza sulle strutture che guidano il nostro agire; questa è la vocazione eminentemente pratica del pensiero, ed ogni atto di dissociazione dall’orizzonte della prassi è vittima di una parzializzazione (inconscia) della sfera storico-sociale. Sono marxista in questo? Sono marxista. La scusa che “da qualche parte il pensiero pratico deve cominciare” o che “bisogna pur arrestarsi ad un certo punto del ragionamento”, tipiche dei pragmatici, non valgono per il pensiero; costoro si fermano solo perché sono stanchi di pensare, o perché hanno raggiunto qualche conclusione che può permettere loro, con minor cattiva coscienza, di compiere il misfatto che avevano in mente sin dall’inizio. Se il marxismo impone un allargamento del pensiero alla totalità intesa come criterio metodologico, bè, questo è il momento di essere marxisti e di fare della critica. È inutile che avverta che qui il marxismo è invocato solo come ermeneutica negativa; tanto questa parola tabù ha un tale peso che in pochi staranno a sentire questa distinzione; comunque, io così per ora lo intendo.

Di fronte ad un momento storico sentito e vissuto come periodo di “crisi” (cos’è la crisi? Non si può definire che cosa sia la crisi; ci sono le crisi storicamente date, e sono i periodi vissuti come crisi da chi li vive come tali ad essere il metro della definizione generale, non viceversa) la progettazione personale diventa più incerta e la reazione può essere duplice. Da una parte abbiamo l’idea del “ritorno”. Ritornare a qualcosa che è stato distrutto, che è stato spazzato via. Questo pensiero è stato vivissimo nel secolo XX, ha identificato ciò che è stato perduto nell’Essere oppure, nella sua versione politica più spendibile per le masse, nella Tradizione. In termini pratici questo dove conduce? Ad una santificazione della comunità, che spesso in periodi di non-crisi non è all’ordine del giorno, e procede ad una identificazione di un nemico; gioca pertanto la carta schmittiana della “categoria politica fondamentale” (per Schmitt), e cioè amico/nemico. In questo senso “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi” (Von Clausewitz), ma è evidente che lo è solo perché abbiamo preventivamente traslato la categoria della guerra alla sfera politica. Qualsiasi pensiero che predica un “ritorno” è fatalmente condannato ad isolare dei soggetti sui quali costruire il mitologema di questo ritorno; essi sono gli amici. L’operazione successiva, retorica, è quella di identificare un “noi” contemporaneo ristretto che viene fatto coincidere con quei soggetti originari: la relazione spesso è posta in termini di eredità, culturale o addirittura genetica (nazismo). Un pensiero che si muove lungo queste rotte, io lo chiamo regressivo.

La critica politica regressiva e progressiva si incontrano nel presente. Entrambe riconoscono che il presente è “manchevole”, che “distorce” qualcosa. È per questo ad esempio che Heidegger e Adorno possono essere accostati nella critica della società capitalistica: nella critica della tecnica. Solo che per Heidegger tutto questo porta ad un oscuramento dell’Essere, che dobbiamo far parlare di nuovo, per Adorno no: porta ad una società disumanizzata in cui l’uomo viene ridotto a merce quanto le cose che produce. Va da sé che Heidegger propone una ricetta che a livello pratico è comicamente desolante: bisogna “rimettere la metafisica a se stessa”, “oltrepassarla” per ritrovare l’Essere e stare tutti in pace con tutti. Da Adorno si può perlomeno trarre che un buon passo sarebbe cominciare a riumanizzare la società opponendosi a questa completa trasformazione in merce (lui dice: l’identico, con ciò intendendo un mondo standardizzato. L’immagine che ha in mente, credo, è la catena di montaggio). Riconosciuto il problema del presente, orizzonte regressivo e progressivo si separano, uno va a destra e l’altro va a sinistra. Storicamente, chi si è avventurato verso sinistra ed è andato troppo in là è finito in qualcosa di molto simile a ciò che si è costruito andando molto a destra; Stalin assomiglia ad Hitler, e se non sono uguali certamente oggi non possiamo tollerare né l’uno né l’altro. La differenza importante è però che, mentre un pensiero regressivo si àncora ad un “noi-ristretto” e finisce fatalmente nella categoria amico/nemico, il pensiero progressivo trova la propria ragion d’essere proprio nel resistere a questo facile specchietto per le allodole. Ed è forse possibile mostrare che gli errori del socialismo reale sono riconducibili ad un abbassamento della guardia rispetto a questo ripudio. Benjamin sosteneva che ogni fascismo è una rivoluzione socialista mancata: il presente manchevole è l’apertura di due strade, e se non si prende quella progressiva-includente, si finisce nell’altra, regressiva ed escludente.

Gli anni recenti hanno visto il capitalismo trionfare. Le nostre vite sono condizionate da bisogni che Epicuro avrebbe chiamato “non-naturali e non-necessari”. L’esperienza del nostro mondo è talmente condizionata dalla sua previa riduzione a merce che anche i rapporti sociali spesso si misurano in termini numerici (tipo gli “amici” su facebook). L’individuo è una monade sempre più chiusa in se stessa, perché il capitalismo vive proprio dell’egoismo dei suoi membri, e prevede la frammentazione come suo stesso carburante: l’io deve essere rafforzato perché l’io è il centro del possesso, e l’origine del “mio”; senza “mio”, io non compro. In quanto si fonda sulla proprietà, quindi, il capitalismo implica già un riferimento all’io (cioè al “mio); ma in quanto esso prevede una logica dello sviluppo illimitato, esso prevede anche la competizione tra gli “io” e quindi la favorisce. A ciò va aggiunto che il recente sviluppo dell’informatica delle comunicazioni ha aiutato la monadizzazione progressiva, svuotando i centri di raggruppamento della società (si fa tutto da casa: ci si informa, si dibatte, ci si fa le proprie idee, senza accorgersi che così l’acquisizione di pensiero critico è fortemente condizionata dai media da cui siamo mappati. L’esperienza di assistere ad un dibattito è salutare in quanto lo scontro con diversi punti di vista sul mondo relativizza la nostra limitata capacità di acquisire criticamente informazione e, al contempo, la rettifica tempestivamente: ma quanta gente forma le proprie opinioni tramite dibattiti “vissuti”?), rendendo più ardua la formazione di un soggetto politico-sociale in grado di porsi come interlocutore non-trascurabile nel dibattito pubblico (un movimento diventa soggetto politico quando semplicemente la sua voce non è più trascurabile: quando viene riconosciuto).

La Lega-Nord è una forma di risposta regressiva ad una situazione sociale che viene criticata anche da sinistra. Il vantaggio della destra è che ha dei vocaboli pronti e facilmente spendibili, mentre la sinistra deve costantemente reinventarli, guardandosi sempre alle spalle a causa dei gulag. Cioè: la destra non deve sempre guardarsi le spalle per i campi di concentramento, perché sembra che ci sia una differenza qualitativa tra l’esperienza, per dire, nazista, e la destra più soft. Mentre per la sinistra lo spettro dei gulag è sempre nell’aria, come se qualsiasi affermazione “troppo di sinistra” portasse dritta in Siberia. Ma perché due pesi e due misure? La sinistra, in realtà, paga il prezzo del suo essere un po’ più in là del pensiero ingenuo. La verità è che la destra economicista, quella del liberismo, non può mai fare a meno di una più organica idea del “noi”, come compensazione per un intollerabile solitudine antagonista che si creerebbe tra le monadi. Così, ad esempio, la modernizzazione post-illuminista non ha mai rinunciato a collocare la Nazione tra i valori supremi, demandando spesso al suo comando l’organizzazione del processo modernizzante. In Italia una versione farsesca di questo duetto è rappresentato dal sodalizio tra Berlusconi, a cui della comunità non frega semplicemente niente, perché a lui importa soltanto di se stesso, e Bossi, cui importa invece una dimensione comunitaria collocata idealmente nella Padania (e mica troppo idealmente, se consideriamo le maree di voti che ha preso dagli anni ’90 in qua). L’ “io” e il “noi” si specchiano così l’uno nell’altro, e l’uno compensa l’altro. Per questo il “noi” collettivista propugnato dalle sinistre è sospettato di essere immediatamente totalitario (in quanto appunto cancellerebbe l’io); mentre la destra enfatizza sia la comunità (noi) che la persona (io, spesso spiritualisticamente rafforzato con una ricucitura della breccia di Porta Pia). Ma la destra propone comunità o persona? Propone entrambe. A sinistra, anarchismo e comunismo potevano distribuirsi i termini allo stesso modo, ma la bancarotta dell’anarchismo e i fallimenti del comunismo hanno complicato di molto le cose.

Ma in un momento in cui l’esperienza individuale è così individualizzata da perdere il contatto con l’Altro e in cui, al contempo, l’incertezza sociale causata dal semi-collasso del sistema economico capitalista, in cui cioè l’io in fondo si riscopre “debole” (io finché sono forte non ho bisogno di nessuno, ma quando sto male scopro d’un tratto la mia solitudine), il “noi” prende il sopravvento. La Lega Nord, cioè, prende più voti; perché la compensazione necessaria è maggiore, perché il bisogno di cautele aumenta. E allora l’alleanza con “i simili” diviene importante, come diviene esperienzialmente importante una nuova condivisione di esperienze di gruppo. La Lega Nord offre questa compensazione in forma compatibile con il livello culturale medio del nord italiano, cioè con i blateramenti di Bossi senior e addirittura junior, e con le sue ridicole proposte pedagogiche, che non sono nemmeno discusse nei testi della pedagogia e della psicologia dello sviluppo come ipotesi da demolire, perché ritenute talmente arretrate da non meritare nemmeno menzione. Dobbiamo cominciare, insomma, a vedere nella Lega Nord un movimento regressivo, che individua i nemici per come li passa il convento, ma che non può che vivere nella riattivazione di questa categoria schmittiana, e appellarsi perciò ad un pensiero della comunità. Il fatto che essa manchi di ideologi, ma che abbondi di contadini, pastori e pluribocciati, è l’unico motivo per cui essa non ha ancora raggiunto il potenziale distruttivo e razzista insito in ogni pensiero di questo tipo.

Il problema sta però nella (ri)trasformazione del pensiero di destra classico nella sua versione comunitaria. Per quanto riguarda l’Italia, La Russa rappresenta il nostalgico fascista il cui modello è l’esercito. Per questo il fatto che nelle scuole lombarde dal 2010 ritorni l’esercito, per insegnare i valori della coesione di gruppo (cameratismo) deve essere visto come un pericoloso riavvicinamento tra la corrente comunitarista implicita in ogni pensiero di destra e il movimento leghista, ingenuo e speculativamente impotente ma ormai ben radicato in tutto il nord e non solo. L’idea è la medesima: il ristabilimento di un “noi”. Cito da un libro terribile: “viaggiai verso la Prussia, per arruolarmi nei Freikorps destinati al Mar Baltico […] Trovai nuovamente una casa, e un senso di sicurezza nel cameratismo dei miei compagni. Abbastanza stranamente ero proprio io, il lupo solitario, a sentirmi continuamente attratto verso quel cameratismo che dà ad un uomo la possibilità di contare sugli altri in caso di difficoltà, o di bisogno […] essi [i membri dei Freikorps]  erano legati da un giuramento di lealtà al leader del loro Corpo. Il Corpo stava in piedi o cadeva con lui. Come risultato si sviluppava un sentimento di solidarietà e un esprit de corps che niente poteva distruggere. […] tutto questo può forse essere compreso solo da coloro che hanno vissuto nelle condizioni di caos esistenti a quel tempo”. Questo brano può ricordare anche il meccanismo dell’identificazione con i leaders nelle dittature, e infatti è un estratto dell’autobiografia di Rudolph Hoess, che poi divenne non solo nazista, ma comandante di Auschwitz e “inventore” del metodo di sterminio mediante cianuro gassoso.

Se noi non ci opponiamo alla militarizzazione della scuola già da subito, e se non insistiamo che i valori della solidarietà di gruppo non sono niente se il gruppo è ristretto ed implica strutturalmente un nemico, diventiamo complici della regressione. Il pensiero progressista ha il dovere di denunciare quello che nel nostro paese sta accadendo, ma nessuno lo fa. Ad Adro un deficiente tappezza di simboli leghisti la sua scuola e nessuno dice niente. Perché? I leghisti non sanno nemmeno cos’è la democrazia (Tosi la identifica con la dittatura della maggioranza, figuriamoci- per approfondire vedi la lettera aperta al sindaco Flavio Tosi); perché nessuno lo fa notare? Essi sono nemici della democrazia, che sebbene sia un orologio imperfetto, per ora è anche la cosa più sicura che abbiamo inventato per tentare di difendere continuamente la libertà minacciata (Popper diceva che bisogna tener conto del fatto che ci possono essere tendenze anti-democratiche latenti sia tra i governati che tra i governanti. E specificava: “la democrazia non può compiutamente caratterizzarsi come governo della maggioranza […] infatti una maggioranza può governare in maniera tirannica.”). Ma questo paese sta andando verso il fascismo, verso la barbarie. “L’alternativa”, di cui si parla sempre in termini ottativi, dovrebbe quantomeno denunciare la regressione del sistema a una categoria che, più che politica, da un punto di vista compiutamente democratico appare prepolitica, e che nel nostro contesto somiglia ad un verso gutturaloide per menomati mentali. Il fenomeno leghista come compensazione, e l’idea che i valori dell’esercito possano essere utili alla società, sono due idee che devono almeno servire di orientamento per il pensiero progressista. I problemi li vediamo tutti e ci servono delle risposte; ma finché concretamente non ci opponiamo alla regressione quotidiana di questo paese, il pensiero progressivo perde e diventa fumo. Il primo compito del pensiero progressivo è di resistere a questa regressione pre-politica, di denunciare con forza questo scenario. Ma per farlo deve analizzarlo, e per analizzarlo deve connettere le cose e capirci qualcosa. Diceva Pasolini che gli intellettuali sono tali perché “connettono”. Ma oggi dove sono questi benedetti intellettuali? Possibile che a scrivere libri debbano essere dei Veltroni o dei Fini?

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