Nell’articolo “La rivolta dei mouse” e l’impotenza della società civile chiedevo a Flores d’Arcais quali fossero le reali prospettive di organizzazione di una opposizione civile che non si limitasse soltanto alla critica negativa, passando invece ad una seconda fase di proposta e progettualità concreta. Alcuni limiti dell’attuale forma di opposizione civile erano individuati nella dimensione virtuale della protesta, confinata al web e incapace di uscirne nelle vesti di propulsione inventiva, sebbene in grado di farlo nelle vesti di opposizione di piazza. L’estrema frammentazione della rete e la mancanza di “nodi stabili” e piattaforme erano dunque considerati alcuni dei peccati capitali dell’attuale situazione della protesta, e la loro creazione adombrata come possibile via di uscita dalla fase meramente formale della protesta “dei mouse”. Come dire che ancora le potenzialità aggregative della rete non sono state sfruttate appieno, e che un passo ancora è da fare. Ma, naturalmente, c’è bisogno che qualcuno lo faccia, e dunque che qualcuno 1) abbia interesse a farlo; 2) sia intellettualmente in grado di farlo.
Ci sono due scenari che possono essere delineati per uscire dalla situazione di stallo progettuale della politica (e dell’opposizione civile) italiana. Il primo è quello di cui parlavo nell’articolo succitato, e che si riferisce alla possibilità di un governo di lealtà istituzionale che ripristini le condizioni minime di vivibilità democratica. Il secondo, invece, ha a che fare con un ragionamento che scende più in profondità e concerne una revisione più radicale del presente, ovvero 1) dei suoi attori sociali, 2) delle prospettive che una riorganizzazione dell’attorialità sociale può consentire e 3) dell’utopia che possa fungere come orizzonte regolativo su cui fondare la propria identità e indipendenza. Ora, proprio la particolare condizione della nostra esperienza storica presente impone che si parta dal terzo punto, cioè da ciò che è mancante. In particolare, l’identità della sinistra scissa in atomi manca di un collante non solo agli alti livelli delle stanze e delle segreterie, ma ovviamente anche ai livelli dell’elettorato, che non ha più a disposizione una cornice narrativa entro la quale riconoscersi come attore-personaggio dotato di senso e di compiti, oltre che di riconoscimento e tutela garantita. Se, come è stato detto ormai trenta anni fa, le grandi narrazioni emancipative sono terminate (Lyotard), ciò non significa che di esse non esista l’esigenza, ma solo che alcune cornici di filosofia della storia hanno esaurito la loro carica ideale. Si è potuto pensare che con la fine delle filosofie della storia fosse finita anche la storia (Fukuyama), ma, come ha detto Said, non può certo essere l’anemia intellettuale degli studiosi di un argomento a privare l’argomento stesso delle sue energie. Ciò che va perseguito, oggi, nella frammentazione postmoderma, è una composizione del frammento in un nuovo ordine narrativo. Ma tale operazione, quando venga agita a sinistra, come è il caso che si sta qui discutendo, ha delle responsabilità in più: che le derivano dalla storia passata, e dalla sua interazione con la filosofia della storia che l’ha suscitata (al di là di travisamenti di un nucleo supposto genuino, argomento sul quale c’è sì da discutere, ma trattando il quale non si può mai dimenticare che un pensiero è anche – e forse soprattutto- gli orizzonti pratici che rende possibili, naturalmente senza esserne per ciò l’antecedente deterministicamente causale). Come dire: le nuove narrazioni che si hanno da pensare, il nuovo orizzonte utopico che deve essere elaborato, non possono prescindere dal pensarsi storicamente e quindi non possono non acquisire ciò che la storia propone come suprema lectio.
È chiaro che il processo di ripensamento del punto 3 non può che essere complicatissimo e al contempo dolorosissimo. Complicatissimo, perché, nonché mettere in gioco i fondamenti stessi del pensiero della sinistra, e quindi le sue radici filosofico-storiche, metterebbe in discussione anche la sua più insigne e potente tradizione, cioè la marxista; dolorosissimo perché l’attaccamento umano alle proprie convinzioni resiste sovente anche al più affilato e allenato pensiero critico, come le difficoltà rielaborative della sinistra attuale dimostrano.
È mia personale convinzione che la nuova sinistra debba partire dal concetto di libertà. Questo sarebbe assieme un segno di assunzione del passato e di volontà di discontinuità rispetto ai dolorosi esiti del socialismo reale, nonché, per quanto riguarda il nostro paese, una sfida frontale a chi di questo concetto si è appropriato sottoponendolo ad una totale desemantizzazione. Ripartire dalla libertà significa andare alla ricerca dei suoi profondi legami con il concetto di uguaglianza, che deve al contempo essere sottoposto a revisione per evitare da una parte l’astrattismo giuridico e dall’altra il livellamento forzato. Ma proprio pensando all’uguaglianza non in maniera diretta, bensì mediata, e ciò a partire dal concetto di libertà, e contemporaneamente spingendo il pensiero della libertà fino al pensare in esso la categoria etica dell’Altro, si potrà, credo, creare il presupposto per un totale accoglimento delle lezioni storiche che sono davanti ai nostri occhi, e dotarsi del fondamentale anticorpo per evitare di sprofondare nelle catene dell’egualitarsimo. Questo processo di ripensamento, che auspico, non deve dare nulla per scontato. Il ripensamento della dialettica intrinseca della libertà, la sua apertura verso l’Altro, la sua traduzione in azioni immediatamente politiche, tutto questo è un percorso che deve essere radicale quanto condiviso, aperto ai risultati della conversazione e del confronto. Del resto, solo così si può pensare di creare una narrazione “aperta”, cioè sempre rivedibile e quindi pienamente democratica. La necessità primaria è dunque quella di trovare e creare spazi di pensiero. Solo l’esistenza di questi spazi può permettere l’uscita dalla fase di stallo progettuale e il transito alla seconda fase della protesta, quella autenticamente politica.
La rete è piena di siti, pagine facebook e blog aggregativi, di analisi, di informazione. Qualche giorno fa mi sono fortuitamente imbattuto nella pagina del MRS, Movimento RadicalSocialista, e in particolare in uno scritto che mi è parso davvero affine a tutto quello che ho sempre pensato (o cercato di pensare), sia a livello teorico, ovvero la necessità di coniugare in maniera sostanziale uguaglianza e libertà, e, fatto per me non meno importante, anche a livello di azione. Questo movimento infatti incarna la voglia di rinnovamento della sinistra italiana in senso non solo nominale. Si propone, cioè, di aprire una grande fase di dibattito per la ricerca e la discussione degli obiettivi e della strategia, proponendosi di partire proprio dalle radici della sinistra per tanto tempo perse di vista, cioè la ricerca della libertà e della giustizia sociale. Inutile ricordare che la difesa della Costituzione italiana, nel suo articolo 3, contiene già in nuce tutto il programma, difficilissimo ma altrettanto urgente, del liberalsocialismo storico. Questo movimento, fondato a Bologna nel 2006, ha innanzitutto un carattere partecipativo, di discussione, ed è dunque un laboratorio. Personalmente, mi è parso uno dei migliori luoghi che la rete mette oggi a disposizione per la ricerca delle idee, per la discussione non pregiudiziale e non ideologica; un luogo quasi filosofico, sicuramente non politico nel senso più ristretto del termine, dove le opinioni cercano più di trascendere se stesse che di affermarsi. Uno di quei “nodi”di cui parlavo all’inizio, insomma, dove incontrare persone che tendono a mettersi in gioco integralmente, alla ricerca di una via di uscita, alla ricerca di forme che permettano alla libertà di affermarsi nella società tutt’intera e non nelle case di pochi dei suoi componenti. Un “nodo” che invito tutti a visitare, e a contribuire a far crescere.
Qui sotto riporto, con il consenso dell’autore, alcuni stralci di un articolo che può essere considerato il manifesto intellettuale del MRS, allegando in fondo anche alcuni punti del Manifesto Associativo.
La dialettica del liberalsocialismo
Scritto da Giancarlo Iacchini
Il liberalsocialismo, che oggi chiamiamo radicalsocialismo per evidenziarne la dirompente valenza rivoluzionaria rispetto alla melassa “riformista” – centrista e moderata – che concilia staticamente (e annacqua) i nobili ideali che lo compongono, è la sintesi delle due migliori radici storiche della sinistra: il filone del liberalismo sociale e progressista e quello del socialismo libertario e radicale. Nell’ideale della libertà, che sintetizza dialetticamente i concetti di eguaglianza e differenza, va individuato il nucleo teorico e pratico del radicalsocialismo: è l’ideale su cui rifondare e unire la sinistra del ventunesimo secolo. L’incontro e la fusione dei diritti individuali con la giustizia sociale mette fine alla secolare diatriba tra i sostenitori della “libertà” (i liberali) e quelli della “eguaglianza” (i socialisti). Come la storia ha dimostrato, senza libertà l’idea egualitaria diventa omologazione, appiattimento, oppressione e totalitarismo; ma senza eguaglianza i principi liberali si trasformano in una malcelata difesa delle élites dominanti e dei loro inaccettabili privilegi. La società giusta, come ha scritto John Rawls guadagnandosi la definizione di “maggior filosofo politico del Novecento”, ha come primo principio la “libertà eguale”, cioè per tutti, e come secondo postulato il riconoscimento delle differenze unito alla spinta etica alla solidarietà (o fraternità), per promuovere il massimo beneficio dei “meno avvantaggiati”: sono le stesse idee sostenute trent’anni prima dai liberalsocialisti italiani nell’eroica stagione di Giustizia e Libertà e del Partito d’azione (Rosselli, Calogero, Capitini, Basso, Calamandrei, Parri ecc.) ed anche – nella sostanza – da grandi riformatori vissuti in precedenza quali Ferrari, Pisacane, Cavallotti e Gobetti.
[…] il liberalsocialismo conserva e unisce i diritti individuali del pensiero liberale con l’istanza egualitaria del socialismo, respingendo da un lato la restrizione classista della sfera dei diritti, e dall’altro l’eliminazione delle differenze specifiche – e in ultima analisi della stessa libertà – provocata dal comunismo totalitario. Il liberalsocialismo, ancor più nella sua evoluzione radicalsocialista (che innesta sulle radici storiche la conquista conflittuale dei diritti civili e sociali negli anni Sessanta e Settanta nonché i diritti assolutamente vitali propugnati negli ultimi trent’anni dall’ecologismo più conseguente, rifiutando “compromessi” e mediazioni al ribasso tra le migliori tradizioni della democrazia), si propone di salvaguardare il carattere dinamico e rivoluzionario tanto del liberalismo progressista quanto del socialismo libertario. Esso respinge ogni forma di determinismo paralizzante e restituisce all’impegno etico ed ai suoi “imperativi categorici” (ad esempio il giusto rispetto all’utile) la centralità che gli spetta. Mette al centro della politica la rivendicazione dei diritti, con cui traduce ogni lotta sul terreno dell’economia, dell’ambiente, della laicità e della legalità democratica («anche la questione sociale è un problema di libertà e non di eguaglianza», scriveva Gobetti). Respinge in pari tempo l’accusa di non preoccuparsi dei doveri, essendo questi ultimi null’altro che i diritti altrui, che nella “libertà eguale” ciascuno è tenuto a rispettare. Ed uscendo dalla concezione meramente formale e “negativa” del liberalismo – dagli schemi istituzionali di Locke e Montesquieu alla stessa definizione critica di Popper, secondo cui uno stato è democratico quando i governanti possono essere pacificamente licenziati dalla maggioranza dei governati – ritiene che la democrazia non consista soltanto nello svolgimento di libere elezioni ogni 4 o 5 anni, ma vada “riempita” dalla quotidiana partecipazione “dal basso” dei cittadini, sia come individui che organizzati in partiti, movimenti, associazioni, comitati, assemblee, circoli, gruppi. E’ questa continua autogestione della società civile e di tutti i poteri (locali e nazionali, politici ed economici) che vivifica la democrazia e la rende effettiva e sostanziale: come cantava Giorgio Gaber, «libertà è partecipazione»!
[…] esprimiamo la speranza che le forze progressiste e libertarie della sinistra – a cominciare naturalmente dal Nuovo Partito d’Azione che ha organizzato con il Movimento RadicalSocialista il bellissimo seminario bolognese del 30 maggio – convengano nel considerare il radicalsocialismo come l’evoluzione più conseguente ed il legittimo aggiornamento storico del pensiero liberasocialista; ed anche – ma qui l’auspicio è più ambizioso, per quanto anch’esso ragionevolmente fondato – come la base ideale comune di una sinistra unita e rinnovata, nel senso del binomio sempre giovane e attuale espresso dal motto “giustizia e libertà”
Questo l’incipit del Manifesto del MRS:
Il Movimento RadicalSocialista è un’associazione fondata il 9 dicembre 2006 a Bologna per iniziativa di donne e uomini di varie regioni d’Italia, provenienti dalla sinistra socialista, radicale, comunista e anarchica e dall'impegno ecologista e pacifista, allo scopo di unire e rivitalizzare, riscoprendone le genuine radici libertarie, le migliori e più gloriose tradizioni della sinistra italiana ed europea.
L’MRS non vuol essere un partito ma un laboratorio di idee e di proposte; un movimento agile, aperto e pienamente libertario; una proficua occasione di confronto tra quanti nella società civile hanno il desiderio e la volontà di impegnarsi attivamente per la causa della rifondazione della sinistra, all’insegna di un respiro ideale e morale che da troppo tempo si è perso, con il risultato di allontanare dalla politica proprio le persone più coscienti della sua possibile “nobiltà” e radicale alterità rispetto alle meschine logiche di potere e di spartizione delle cariche pubbliche.
Per leggere manifesto e articolo in versione integrale:
www.radicalsocialismo.it
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