giovedì 3 giugno 2010

ALLA RICERCA DEL PENSIERO PERDUTO Critica a “Pensare in Universali” di Antonio Catalfamo

Nello scorso numero del “Foglio degli eremiti” Antonio Catalfamo, nel suo articolo “Pensare in Universali”, tratteggia un impietoso confronto tra l’uomo greco e l’uomo contemporaneo, cala tra l’uno e l’altro lo spartiacque storico del capitalismo trionfante (pur senza nominare mai il capitale), richiama l’origine materiale della generale, secondo lui, miopia del presente accennando alle rivoluzioni taylorista e fordista e alla conseguente caduta dell’uomo dall’Empireo greco all’inferno contemporaneo, in cui non è più che il simulacro di se stesso: uomo-massa, secondo la lezione di Ortega y Gasset. Un paio di citazioni bastano a riassumere la prima parte, teorica, dell’articolo di Catalfamo: “può sembrare assurdo ma è così: l’uomo greco ragionava meglio di quello nostro contemporaneo”, perché “gli antichi greci pensavano alla realtà nella sua complessità” (qui invoca il patrocinio del filologo Mario Untersteiner); mentre “oggi, invece, gli individui vivono di false certezze, come nel Medioevo, si illudono che il mondo coincida con una stanzetta di due metri per tre”.

È quasi superfluo sottolineare il genericismo delle precedenti considerazioni. L’uomo greco cui ci si riferisce, e che pensa al mondo nella sua complessità, è ovviamente non l’uomo greco comune, quello la cui sofferenza, come direbbe Benjamin, giace sotto le macerie della storia e dei suoi dolori; non l’artigiano greco, né certamente lo schiavo (su cui la libertà greca della polis si reggeva). È invece l’intellettuale, il poeta tragico, il filosofo. È ciò che noi abbiamo ricostruito come “il pensiero greco”. Non a caso, infatti, Catalfamo cita in apertura la “Storia della filosofia” di Russell e la testimonianza di Untersteiner, svelando così da dove mutua i contorni del suo generico (si fa per dire) “uomo greco”, il quale pensava al mondo “nella sua complessità”. Ma non è tanto questa disattenzione a far problema. È l’impostazione dell’analisi del presente che diviene, a partire da questa base, del tutto problematica e, in fondo, inconsistente. Dall’ “uomo greco” si passa infatti a “gli individui” dell’oggi, i quali “vivono di false certezze” e paiono vivere calati nell’oscurità Medievale. Ma ora, naturalmente, Catalfamo non sta certo parlando di Jurgen Habermas o di Alain Touraine, ma parla invece dell’uomo-massa o, come rivela la prosecuzione del suo ragionamento, dell’operaio del nord che pensa che il mondo sia di due metri per tre (come era già implicito nell’iniziale riferimento al taylorismo e al fordismo).
Questa incongrua sovrapposizione, una volta svelata, mostra l’inconsistenza dell’accostamento di Catalfamo, sebbene non per forza l’inconsistenza della sua analisi. L’analisi è chiara: l’operaio che pensa al federalismo come alla panacea universale in realtà guarda solo al proprio orticello, la cultura “in pillole” della tv inebetisce gli spiriti, la diffusione delle idee è vieppiù ridotta a sloganismo cavalcato dai “nuovi messia che la tv ci ammannisce ogni giorno”. Tutto questo soffre di un tono da invettiva più che scendere nel particolare facendosi analisi approfondita. In particolare, mi chiedo se sia legittimo accusare un operaio del nord di gretto egoismo quando egli cerca di difendere il potere d’acquisto del proprio salario tentando di trovare un appiglio nell’unica proposta che ci sia in circolazione, ovvero il federalismo fiscale. Si sa benissimo che i dettagli di questo federalismo non si conoscono, perché in effetti non sono ancora mai stati pensati; il problema è piuttosto che a nessuno, né tantomeno alla sinistra o alla Cgil, è chiaro come i salari degli operai del nord e le loro condizioni di vita potranno essere difesi. Frasi come quella di Catalfamo “l’operaio ignorante non si rende conto della complessità della realtà e vota Lega” sono agghiaccianti nella misura in cui si macchiano dello stesso male che imputano alle proprie vittime, traversando a volo d’uccello la complessità materiale della situazione esistente.
La proposta finale, con cui l’autore vuole opporsi alle derive pubblicitario-leaderistiche (cui effettivamente bisogna opporsi), è figlia del doppio errore che fino a qui ho cercato di mettere in luce, cioè dello stereotipo dell’ “uomo greco” e dall’indebita sovrapposizione di esso con l’operaio (anch’esso peraltro in buona parte stereotipato come ignorante leghista): “Una forza veramente alternativa deve rieducare la gente e soprattutto i giovani a ragionare in universali, a capire come gira il mondo”, dice Catalfamo. Innanzitutto, nonostante il riferimento costante ad un lessico marxista, qui si pecca di idealismo poiché il pensiero viene invocato come il viatico alle contraddizioni esistenti. Certo, sono ben lontano dal credere che il mondo si possa cambiare qualitativamente senza una azione consapevole che passi per un processo di comprensione, ci mancherebbe; ma non è possibile pensare che il cambiamento possa essere impresso mediante un atto meramente contemplativo di teoresi che si innalzi dall’ombelico all’iperuranio (Catalfamo si riferisce all’operaio del Nord come a uno “col capo reclinato sul proprio ombelico”). E soprattutto, pare che Catalfamo, oltre che di idealismo, pecchi anche di presunzione, poiché sembra sapere perfettamente come gira il mondo. Ma nostalgia di sapore Romantico per il mito della “bella Grecia” e lessico marxista tradito da una inclinazione fin troppo idealistica non credo possano bastare per uscire dalla situazione esistente, come invece è da lui prospettato. Analisi di questo tipo non apportano nessun contributo alla comprensione del presente, limitandosi invece ad accuse tanto generiche quanto vaghe ed abbandonandosi a sogni altrettanto vacui. Non si fa nessuna menzione, ad esempio, alle mutate sembianze del panorama attuale rispetto a quello di soli quaranta anni fa. Ciò che è necessario, credo, non è ritornare a pensare in universali. È invece abbandonare l’atteggiamento inefficace di denuncia intellettualistica e, nel pieno riconoscimento della storicità dei concetti (questo è l’invito che Marx stesso fa quando indica l’origine strutturale della sovrastruttura, e non altro; ma ciò non sempre è stato capito), tentare una elaborazione veramente nuova di concetti che sappiano attagliarsi alla realtà meglio di quanto non sappiano fare le vecchie griglie di lettura. Ma ciò non può essere richiesto all’operaio. All’operaio e al precario impegnato nella lotta contro il lunario, devono adesso essere fornite risposte alternative, il che su un piano politico vuol dire: proposte di azione ed intervento. Ciò non significa ovviamente che non ci sia bisogno di una azione educativa e che essa abbia tempi lunghi. Ma l’idea di Catalfamo che basti rieducare la gente a pensare in universali nasconde un certo terrorismo della ragione, in quanto cela in sé la presupposizione che, una volta che tutti abbiano appreso a ragionare in universali, non si potrà che essere d’accordo su una certa interpretazione del mondo, del “giusto”, del “buono”. Sembra che si debba insegnare alla gente un canone universale e che questo canone sia il “pensare in universali”. Ciò che serve è altro. È che chi ne ha le forze si metta a pensare davvero alla complessità del mondo, arrivando anche a mettere in discussione le vecchie strumentazioni analitiche con le quali era solito condurre i propri ragionamenti e forgiare le proprie strategie. Ciò che è necessario è un cambio di paradigma, una nuova corrispondenza dell’apparato sovrastrutturale con le strutture sottostanti, alla ricerca di un collegamento oggi perduto e che solo una volta ripristinato potrà restituire alle idee l’attrito sulla realtà necessario per l’orientamento politico. La sinistra italiana, nata dal Pci, ha tentato il cambio di paradigma, perdendo a sinistra i pezzi che non si rassegnavano a questo cambiamento, ma è finita nel Pd, ovvero in una forza che ha interpretato il cambiamento senza alcun concetto, adeguandosi semplicemente ad esso. In questo, la struttura (liberista e capitalista) ha davvero originato la sovrastruttura. Ma la struttura, invece, nella misura in cui è contraddittoria e problematica, domanda che si elaborino per essa delle concettualizzazioni in grado di porre fine all’impasse. Oggi, nessuna forza politica di sinistra è in grado di proporre alcun consistente pensiero dell’alternativa.

L’articolo di Catalfamo mi sembra, in definitiva, un esempio dello smarrimento della sinistra e dei suoi intellettuali. Come dice egli stesso, “il mondo, quello vero, è molto più grande e più complesso”. E richiede, anzi che nostalgiche utopie, di essere pensato con nuovi concetti.

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