Mercoledì 21 sono stato alla presentazione del libro Dizionario Minimo di Salvatore Veca, il cui sottotitolo è “Le parole della filosofia per una convivenza civile”. Umberto Curi, filosofo veronese professore a Padova, ha animato la discussione; ne è uscito un pomeriggio di densa riflessione sui concetti della democrazia, di cui qui do un breve e per forza di cosa parziale resoconto.
Il libro di Veca si articola in 12 capitoletti ognuno dei quali si prende in carico una parola che l’autore considera fondamentale nel lessico politico. Queste parole sono: libertà, tirannia, solitudine, incompletezza, giustizia, democrazia, laicità, riformismo, tolleranza, rispetto, identità, speranza. Credo che una attenta perlustrazione del titolo e del sottotitolo lasci spazio ad una considerazione, che a me pare amara: queste elencate sopra sono le parole che Veca propone di riprendere in mano, di chiarire, di riproporre, “per una convivenza democratica”, come dice il sottotitolo. Sebbene Curi, molto opportunamente, abbia sottolineato nella sua introduzione che una operazione del genere di quella di Veca, di scrivere cioè un libro accessibile ai non specialisti, abbia al proprio fondo una grande fiducia nel potere delle parole, sembra inevitabile anche la considerazione opposta: se è necessario riproporre ad un pubblico che sia il più vasto possibile parole come libertà, democrazia, rispetto, tolleranza, giustizia…. ciò significa che se ne registra un deficit. Che, di questi concetti, o non se ne vede traccia in giro, o se ne vedono in giro solo fantasmi distorti. d’altro canto, quali parole oggi sentiamo in tv più di “libertà” (lanciate come freccette verso chissà quali bersagli da predellini qualsiasi durante bagni di folla da star), “riforme”, “identità” (concetto soprattutto leghista)? Il potere delle parole di cui diceva Curi, e cui Veca assente ante litteram con questa operazione editoriale, rivela in controluce la miseria dei tempi, e il timore di scivolare in un lessico ridotto alla sua deformazione retorica. Inoltre, e non secondariamente, è implicito che lo snaturamento e la perdita di queste parole, patrimonio della nostra tradizione europea, vadano riaffermate e (magari) rettificate, proprio in vista di una convivenza democratica: così mi pare di poter ragionevolmente concludere che l’implicito del libro stesso sia che di tale convivenza democratica oggi c’è solo qualche appannato ricordo. È quanto si trova riconfermato proprio a p. 3: “nessun valore è immunizzato, una volta per tutte, rispetto all’eventualità desolante del suo collasso e della sua erosione. Anche quelli che più contano per noi possono, ad un certo punto, in una varietà di circostanze, essere messi in saldo sul mercato delle idee, delle credenze e delle convinzioni”.
Il concetto più importante del libro, e quello con cui si apre, è quello di libertà. La teoria di Veca si può definire (come egli stesso la definisce) come una teoria della “libertà democratica”, che corrisponde alla possibilità da parte dei cittadini di identificarsi in diverse versioni della salvezza (al limite religiose) senza che venga meno la loro totale parità sul piano del diritto; sostiene Veca che questa è la grande lezione che l’Europa ha saputo trarre dalle guerre di religione del suo sanguinoso passato. La libertà democratica è dunque l’affermazione della “compossibilità di identificazioni alternative” (Veca), ed in questo senso è chiaro che in tale concetto è racchiuso in nuce il principio fondamentale del pluralismo. Una società, se vuole che i suoi componenti siano davvero liberi secondo il concetto di libertà democratica, deve sapersi dare delle norme che non siano contenutistiche (o che lo siano il meno possibile), ma invece “facoltativizzanti”; devono cioè lasciare liberi i cittadini di autodeterminarsi, e favorire il rispetto tra i partecipanti al consorzio sociale. Ogni scelta è, così, equiparata alle altre. È evidente, però, che non è possibile concepire una società dove si dia libertà totale ai cittadini; e appunto qui interviene come limitante il concetto di democrazia: la “libertà democratica” mi pare si possa dunque definire come quel difficile equilibrio tra limitazione e autorizzazione, come la mediazione essenziale tra il singolo e la società, tra potere e dovere, tra le esigenze dell’uno e quelle dell’altra intesa come totalità dei suoi membri. Così, per fare un esempio: la legge sul fine vita che proibisce l’eutanasia non risponde ai requisiti di libertà democratica, poiché impone a me di dover essere mantenuto in vita anche contro la mia eventuale volontà; la legge eventuale sull’acqua pubblica, mentre limiterebbe la brama del signor x di far soldi speculando sull’acqua, si preoccuperebbe che nessuno potesse essere escluso dalle risorse idriche per motivi economici e avrebbe dunque di mira altro che non la libertà dei singoli. Quindi, mi pare che il concetto di “libertà democratica”, mentre assicura l’inserimento del pluralismo nello spazio politico, sia nondimeno un correttivo alla progettazione individuale che non si deve pensare in senso soltanto negativo, cioè come garanzia della progettualità dell’altro; ma altresì in positivo, essendo esso anche un richiamo costante della libertà personale, che si estrinseca come progetto individuale, ad una dimensione che, trascendendo il progetto individuale, lo riporta ad uno sfondo collettivo che non deve mai essere perso di vista.
Ecco perché Curi, durante la discussione, si è preoccupato di sottolineare la pericolosità della nozione di “tolleranza”. Non si tratta semplicemente di tollerare l’altro, il suo progetto. La tolleranza, dice giustamente Curi, ha sempre qualcosa che assomiglia ad una astensione: mi trattengo dall’eliminarti, e ti tollero. Nelle Lettere Luterane Pasolini diceva una cosa simile: gli omosessuali sono tollerati: e appunto questo è il problema, essi sono soltanto tollerati. ma, come ho cercato di mostrare, lo stesso concetto di “libertà democratica” va oltre il concetto di tolleranza, lo ingloba in sé e lo supera davvero hegelianamente, mettendo sempre il singolo di fronte all’altro che gli si presenta nello spazio politico e mostrandoglielo non solo come un altro, ma come la categoria generale dell’Altro. La libertà democratica, in sostanza, mentre io la agisco nella mia azione, non mi permette di dimenticare lo che lo spazio in cui mi muovo contiene una infinità di altri, anch’essi come me liberi, e che dipendono dalla mia azione e che io non posso rimuovere dallo sfondo ideale della mia prassi. La cosa più importante da considerare è che questa idea non è direttamente traducibile in legge, non è suscettibile di una traduzione in norma: è una metanorma, e in quanto tale afferisce al campo dell’etica. Agire conformemente alla “libertà democratica”, prima che questa sia il principio informatore del nostro legiferare, è sempre una scelta personale; e oggi più che mai.
Il prof. Veca rivendicava, però, come replica a Curi, la portata pratica del concetto di “tolleranza”: meglio che niente. Già. Anche questo, come il fatto di dover scrivere un Dizionario Minimo, è un triste e preoccupante segno dei tempi.
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