La sociologa Saskia Sassen da tempo mette in guardia dalla facile considerazione che la globalizzazione, iniziata con la deregulation degli anni ottanta e proceduta con la costruzione del mercato globale internazionale da parte dell’iniziativa delle corporation, abbia messo fine allo stato nazione; piuttosto, ciò che bisogna considerare è invece il processo che, assieme a questa trasformazione dell’apparato economico mondiale, l’apparato dello stato nazionale ha subìto. D’altra parte la dichiarazione di morte improvvisa è sempre sospetta e in fondo ideologica: nel migliore dei casi, maschera qualcosa. Nella fattispecie, se seguiamo l’analisi di Sassen, maschera un mutamento dei rapporti tra i poteri all’interno dello stato-nazione. La sua analisi contraddice di fatto l’ideologia neoliberista, la quale grosso modo implica (perlomeno): astensione dei governi dai processi di mercato (il vecchio laissez-faire); che la globalizzazione indebolisca lo stato-nazione; che lo sviluppo dei mercati globali incentivi lo sviluppo della democrazia. In realtà, ciò che la gestione del mercato da parte delle multinazionali comporta è la creazione di un apparato burocratico che sostenga queste stesse imprese; e questo apparato, argomenta Sassen, è fornito dagli stati. Ma la velocità del mercato e lo stesso modello aziendale impongono una modificazione all’equilibrio interno dei poteri politici statuali, dove il legislativo viene progressivamente esautorato a favore dell’esecutivo, che si stringe in simbiosi con le corporation di cui fa gli interessi. La giustificazione ideologica di questo accentramento esecutivo spesso è quello di fare gli interessi dei cittadini e degli elettori, anche se ciò è drammaticamente in contraddizione, a livello pratico quanto teorico, con la propensione delocalizzatrice delle aziende, la quale risponde a logiche di profitto più che a logiche sociopolitiche. Di fatto, dunque, mentre sono proprio gli Stati a produrre gli apparati necessari per la globalizzazione economica, essi producono, per seguire questa stessa logica, dei deficit democratici al proprio interno senza essere in grado di porvi rimedio. Così il modello economico, fondato sul fare pragmatico e sull’azione, ritorna nel luogo politico che lo ha incentivato e lo modifica a sua immagine e somiglianza.
In Italia la legge elettorale prevede il solo voto al simbolo. Invocata come facilitazione del voto e poi riconosciuta come “porcellum” dal suo stesso ideatore, in realtà risponde ad una logica ben precisa, logica che vediamo oggi nei suoi tristi effetti. Pensata come strumento per la costituzione di una camera delle corporazioni di stampo fascista, aiuta l’esecutivo anonimizzando gli eletti e nascondendoli dietro il simbolo, alla cui logica devono rispondere; così, la logica più ferrea e coerente di questo tipo di legge elettorale è 1) il ricorso sistematico al decreto, conseguente allo svilimento del momento parlamentare mediante anonimizzazione dei presenti (possono essere tanto veline che intellettuali senza che cambi molto); 2) il costante ricorso alla “fiducia”, intesa come obbedienza al simbolo, per le questioni che non possono essere sottratte senza scandalo al dibattito parlamentare (tipo la finanziaria). Mi pare evidente, quindi, come la nostra legge elettorale segua da vicino quel movimento di sbilanciamento democratico individuato da Saskia Sassen. Ritroviamo qui una riunificazione: l’endemica vocazione delle destre di esonerare il momento del dibattito in nome dell’azione, e la vocazione economicista delle destre contemporanee. Bisogna aggiungere che in Italia l’enfasi sulla comunità non fa parte del patrimonio lessicale della destra; questo compito è lasciato alla Lega Nord, il cui richiamo al territorio e alla chiusura della comunità non è che una correzione sul piano ideologico della tendenza individualista del neo-liberismo; questo rimane però il fine ultimo perseguito anche da questa apparentemente opposta logica retorica, in quanto quest’ultima porta fino in fondo, concretizzandola, l’idea della globalizzazione: quella dello sfruttamento dell’alterità a proprio unico vantaggio, con nessuna concessione all’umanità dello sfruttato. Ecco perché la Lega Nord e Berlusconi non sarebbero potuti esistere l’uno senza l’altro, in una versione italiana del connubio tra le due destre economicista-efficientista e comunitario-claustrofobica. Ed ecco perché il percorso inverso di Fini non può essere compreso, temo, dall’elettorato della destra italiana.
Saskia Sassen vede comunque delle potenzialità positive nel processo di conversione statuale in attori della globalizzazione. Gli Stati, sostiene la sociologa, sono oggi dotati di strutture e di poteri che li mettono in condizione di gestire una politica globale, mentre un tempo di fatto gli stati nazionali non lo erano (forse ad eccezione dell’Impero Britannico); basterebbe dunque che convertissero le proprie energie verso fini più positivi, come l’ecologia, i diritti, i beni primari, reindirizzando questo nuovo sapere su uno scenario del tutto diverso. Vero. Ma questo assomiglia molto al vagheggiamento di un dispotismo illuminato, in cui sì, i padroni sono i padroni assoluti, ma almeno governano bene (così fu nell’Impero Austro-Ungarico, dalle leggi giuseppine in poi). Questo vagheggiamento è del tutto utopico, o quanto meno non prospetta uno scenario in cui il perseguimento di fini diversi da quello dello sfruttamento sia strutturalmente prefigurato; rimane legato a contingenze fortunate. Comunque, in Italia stiamo andando proprio nella direzione opposta (ed è questa una cristallina conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che i nostri dirigenti sono tutt’altro che illuminati). Il modello dell’esecutivo forte perseguito da Berlusconi (con i corollari metaforici della virilità senza età) è di fatto libertà di perseguire gli interessi politico-economici scelti senza subire le pressioni dei più deboli, dei dimenticati. La Fiat sta delocalizzando in Russia, ha chiuso a Termini e ragiona con la testa a Detroit; la Omsa (collant) approfitta della crisi per spostarsi in Serbia e chiudere lo stabilimento di Faenza; e tutto ciò senza che il governo intervenga, se non con promesse. Ora il governo intende estendere questo modello anche alla società tramite il medio dell’economia: a questo proposito serve la legge sull’arbitrato respinta di recente dal presidente Napolitano (primo respingimento post factum). Con questa legge non si farebbe che togliere ulteriore potere al lavoratore, potere già risibile a livello di contrattazione vista la diffusione del precariato; la logica è dunque la medesima: maggior potere all’esecutivo e obliterazione di tutto ciò che impedisce efficienza e velocità (contrattazione). Ecco perché la Cgil sta organizzando la protesta attorno a punti ben precisi e davvero imprescindibili: 1) il ricorso all’arbitrato non deve poter essere previsto al momento dell’assunzione, ma solo al momento della specifica controversia, e non deve riguardare i precari; 2) deve svolgersi secondo leggi e contratti collettivi; 3) non deve essere prevista una risoluzione mediante decreto ministeriale in caso di mancato accordo (si veda Il Manifesto, 16 aprile). È chiaro infatti che un precario e un lavoratore al momento della firma del contratto sono parti in posizione troppo debole per poter resistere ad eventuali pressioni da parte del datore di lavoro.
Mi sembra dunque inequivocabile che su più piani sta avvenendo il tentativo di spostare l’ago della bilancia democratica. Sul piano politico, questo è in gran parte già un tentativo riuscito, e sul piano economico i lavoratori sono già in condizione di estrema subordinazione. Questa legge è un attacco all’articolo 18 che sarebbe fatale per la china che delineerebbe.
Sul piano politico, la sinistra deve prendere coscienza che pochi sono ancora gli spiragli aperti per un riequilibrio della dinamica democratica. Il Partito democratico deve ripartire, credo, proprio da una netta presa di posizione a favore dei lavoratori in questa controversia, e da un rilancio della questione della legge elettorale. Solo si potrà pensare che la deriva democratica del nostro paese può giungere ad un punto di arresto prima di arrivare a quel punto di non ritorno al di là del quale risuonerà, beffarda, la domanda “come è potuto succedere tutto ciò?”
Ho appreso che il prof. Carlo Galli, docente di storia delle dottrine politiche a Bologna, ha appena detto a Radio 3 che preoccuparsi di un operaio che perde il lavoro è di sinistra, preoccuparsi del profitto dell'azienda (che per far profitto delocalizza e causa la perdita di posti di lavoro) è di destra.
RispondiEliminaEcco un'idea per il più che ritardatario "progetto per l'Italia" di Bersani, o per le sinistre (una sola utopisticamente, magari.
Marta