L’ALTERNATIVA NON PIOVE DAL CIELO.
L’assurda ed improbabile idea di una “costituente della nuova sinistra”
Qualcuno doveva pur dirlo, e l’ha detto il vincitore: la sinistra è stata sconfitta. Ma perché questa sconfitta possa essere un momento produttivo nella vita della sinistra italiana, deve essere innanzitutto riconosciuta da tutti i suoi generali (ciò che non è stato), e poi deve sapersi imporre come momento di svolta (ciò che sarà?). Si deve partire dai dati. Ma non dai raffronti puramente numerici con precedenti tornate della stessa tipologia elettorale: scorse regionali, scorse europee, politiche 2008, false analogie storiche ancora più affondate nella notte dei tempi; bisogna invece partire dalla considerazione che dalla sua fondazione il Pd ha costantemente perso: consensi, regioni, fiducia. Ciò significa forse che l’ultima grande proposta innovativa (sebbene molti già in partenza dubitassero di quell’effettiva innovatività) sulla scena italiana, pur avendo fatto segnare una dose inaspettata di fiducia iniziale, ha perso di credibilità perché i limiti della sua realpolitik sono nel frattempo emersi. Eppure Bersani e i suoi capitani, alzando la voce negli ultimi giorni di campagna elettorale, sentivano “aria diversa”. Forse nelle stanze chiuse del partito l’aria è ormai (irrimediabilmente) viziata e stantia, e forse è ora di cambiarla. Ma la sconfitta può trasformarsi in ripartenza soltanto se il perdente sa pensare il proprio limite, cioè se sa avvertire che quell’aria è sì cambiata, ma in peggio e non per l’avversario.
Nell’articolo “L’alternativa possibile” (Il Manifesto, 2 Aprile) Vendola ha parlato senza mezzi termini di sconfitta e di necessità per il “centrosinistra” di “guardarsi allo specchio senza ipocrisie”; proprio ciò che, nei giorni successivi al disastro elettorale che fa segnare l’avanzata della Lega al nord e la tenuta del Pdl al centro e al sud, il Pd e suoi serafici dirigenti non hanno voluto o saputo fare. Vendola, in particolare, coglie il nocciolo del problema quando si chiede quale racconto la sinistra abbia saputo costruire negli ultimi anni; domanda retorica, naturalmente, perché di nuovi racconti o di nuove grandi narrazioni non c’è traccia nel recente panorama italiano. Per questo il nostro scenario politico ha potuto essere occupato dalla capziosa e fraudolenta concettualità berlusconiana, trasformandosi in un piatto e desolante vaniloquio senza meta. Una narrazione potente che sappia tenere assieme passato e presente, indicando la via per il futuro, è ciò che può dare un senso all’azione di governo (o di opposizione), ciò che rende riconoscibile una strategia politica e ciò che favorisce l’identificazione dell’elettorato con una progettualità: ed è la progettualità che costituisce lo spazio genuino della polis come spazio di progettazione ad un tempo collettiva e personale. Senza questa sostanza, lo spazio pubblico si può ridurre ad una rincorsa spasmodica e spossante di mezzi e fini, ciò che di per se stesso riduce tutto a mero mezzo; oppure, laddove il diritto sia esautorato nel fatto, ad una sfrenata prevaricazione dei deboli ad opera dei forti (ricchi, detentori di mezzi di comunicazione). La sinistra italiana ha oggi di fronte due alternative: copiare il modello berlusconiano, dedicarsi al culto di pubblicità ed immagine, alla promozione e al marketing, e nel frattempo rabberciare la coperta sempre più corta stringendo alleanze avventizie; oppure smettere questa rincorsa iniziata con il pullman di Veltroni e fermarsi. Scendere e pensare il proprio limite. Entrambe le linee sono, in misura diversa, rappresentate dallo stesso Vendola: la prima realizzata nell’ultima campagna elettorale, la seconda auspicata nell’articolo e in parte realizzata nei suoi cantieri di discussione.
Ma la mancanza di una narrazione non è il termine ultimo del problema e deve essere messo in prospettiva a sua volta. Esiste, alla base, un problema di identità. Nell’articolo, lo stesso Vendola parla di “centrosinistra” e non di “sinistra”, eppure al lato opposto vede la “destra” e non il “centrodestra”. Questa asimmetria ratifica una difficoltà nell’identificazione dei protagonisti dello scontro, ed è sintomatica in quanto i protagonisti dell’agone politico, come entità astratte di volta in volta costruite, hanno come fattore di organizzazione i concetti che ne stanno al fondo e li costituiscono. D’altra parte, cos’è oggi il centrosinistra? (e, corrispondentemente, che cosa risulta essere la sinistra? Che soffre, naturalmente, di una definizione in negativo che già ne palesa la convalescenza cronica) È il Pd più Sel? È anche la Fed? È l’Idv? Grillo? È parte del Pd più Sel più parte della Fed, con forse alcuni dell’Idv (De Magistris?) più il popolo viola, meno qualche grillino incallito? Il pensiero narrativo, sviluppatosi negli ultimi trent’anni trasversalmente alle scienze sociali, alla filosofia e alla scienza, sottolinea che identità e racconto non sono separabili, e che l’uno si dà mediante l’altra soltanto. Ciò che va ripensato è dunque qualcosa che sta oltre questa polarità inseparabile narrazione-identità, e che ne forma la premessa ineludibile. Si tratta di ciò che una volta si chiamavano “le idee”, e che sono state messe in salamoia dalla politica postideologica del fare e del pragmatismo. Per costruire nuove identità e nuove narrazioni servono innanzitutto nuovi concetti.
D’altra parte, la crisi della sinistra italiana è sotto gli occhi di tutti e non c’è bisogno di citare i numeri sconfortanti delle ultime elezioni. Molti giovani che votano Pd lo votano turandosi il naso, altri giurano che hanno votato Rifondazione per l’ultima volta. Ma chi votare alla prossima occasione? Non sono infrequenti i casi di spostamenti dall’area di sinistra alla sconcertante Lega Nord. Si può dire, in effetti, che si siano prodotti, sui due diversi piani sociale e politico, due fenomeni molto simili. Da un alto negli ultimi quindici o vent’anni i traumi dell’immigrazione massiva e della globalizzazione hanno ricondotto in auge il (mai tramontato in verità) mitologema della comunità, riattivato dalla Lega in una versione ideologicamente becera e quindi compatibile con lo svuotamento intellettuale della vita italiana; sul versante propriamente politico, abbiamo assistito ad uno schizofrenico processo di sfaldamento, ricomposizione, scissione, frantumazione, riassemblamento e nuova dispersione da parte dei partiti di sinistra. Ciò che può essere rimproverato (e giustamente) alla Lega, ovvero di non avere una politica di ampio respiro, di pensare soltanto a ciò che c’è di immediatamente presente lì, attorno al campanile, può essere rimproverato anche, mutatis mutandi, alle sinistre. Attorno ai vecchi concetti, ormai inservibili, le sinistre sono rimaste ad osservare il proprio giocattolo inceppato, tentando di aggiustarlo, basite, ognuno per proprio conto. Risultato: giocattoli pochissimo funzionanti ma a funzionamenti diversi tra loro e due tre, quattro partiti (cinque, sei…). In entrambi i casi una sorta di autismo, di chiusura al presente che diventa futuro, uno sguardo fisso sul passato: una incapacità di pensare il nuovo.
Per porre fine a questa schizofrenia di sinistra, ancora una volta non si può fare altro che proporre una sosta. Per questo, in effetti, la proposta di Vendola di ripartire da vere e proprie “lezioni partecipate”, che mirino ad elaborare una nuova impalcatura concettuale con cui affrontare il nostro presente, va presa sul serio, ed ha una tempestività che va colta al volo. Mi chiedo soltanto se questo appello alle “lezioni partecipate”, che io interpreto come un appello all’unità di intenti e, a fortiori, al’unità politica, non abbia bisogno anche di un gesto simbolico di ricomposizione, dato che viene proprio da colui che si è reso protagonista dell’ennesima ultima scissione a sinistra, scissione che ha avuto tra l’altro come effetto immediato l’esclusione della sinistra italiana dal parlamento europeo. Senza questo gesto, infatti, questa stessa proposta non rischia di rimanere puramente appellativa, un mero augurio paradossalmente ironico?
Come ho detto, la ridiscussione delle idee e dei concetti base è l’unico viatico da cui possiamo trarre la speranza di costruire un modello alternativo a quello, vuoto, del berlusconismo dilagante:per nuove direzioni sono necessari nuovi concetti. Ma allora non sarebbe il momento di bandire davvero gli arroccamenti identitari e quasi autistici, guardarsi sul serio “allo specchio senza ipocrisie” e mettersi a discutere? Si dovrebbe, certo, cominciare con lo sciogliere i (piccolissimi, piccoli e meno piccoli) partiti, e forse rinunciare a storici simboli. Ma producendo nuovi concetti forse seguiranno nuove proposte, e magari nuovi soggetti politici oggi del tutto impensati e del tutto diversi dalle mere possibilità combinatorie del presente. Una grande “costituente della nuova sinistra” (che partisse proprio da ciò che lo stesso Vendola indica come concetti cardine, cioè i beni comuni e il lavoro) potrebbe essere l’opportunità per inventare nuove strade, l’occasione per farci trovare preparati e solidi alle prossime sfide al berlusconismo di destra e alla Lega dalla vista miope. Servirebbe forse un grande coraggio, e certo una spallata alla realpolitik. Ma, se non ora, quando?
Sul manifesto del 17 aprile Vendola parrebbe risponderti, e parlando dei partiti afferma: "sono tutti inadeguati, a sinistra, compreso il mio. E vanno rifondati, per ricostruire l'idea che la sinistra è grande sogno, passione, utopia"; e continua, sostenendo che le sconfitte vengono dalla politica e dal modello sociale e culturale berlusconiano, quel mix di pubblicità, immagine e marketing, appunto.
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